Quale politica economica per l’Europa, l’Italia e il Mezzogiorno? Domanda complessa, alla quale l’economista Massimo Lo Cicero ha provato a rispondere con un libro dal titolo (quasi) omonimo, che verrà presentato a Capri sabato 27 agosto (Palazzo Cerio – ore 18,30). Sono previsti gli interventi del presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, dell’economista Mario Mustilli e del presidente del Gruppo Getra Marzo Zigon. Il dibattito, moderato da Alfonso Ruffo, consentirà di svolgere un confronto sulle dinamiche relative tra il Mezzogiorno e l’Italia e quelle tra l’Italia e l’Unione Europea a partire dalle analisi della Svimez e quelle dell’Istat. “Per avere una ragionevole consapevolezza delle traiettorie economiche dell’Unione Europea – afferma l’autore del volume – dobbiamo segmentare l’andamento della crescita, e della decrescita, ma anche l’insieme dei paesi che si aggregano nell’espansione o nella depressione. La Svimez ha prodotto a questo proposito una tabella molto interessante…”
E che cosa ci indica, professor Lo Cicero?
Parla delle traiettorie del Mezzogiorno, dell’Italia e dell’Europa dal 1996 al 2000. Il tasso complessivo della crescita in questo quinquennio presenta una notevole divaricazione tra le aree economiche e le singole nazioni.
Proviamo a segmentare allora?
Tra il 1996 e il 2000 l’Unione Europea cresce al 15,4%. L’area euro cresce al 14,8%, il che vuol dire che il nocciolo duro dell’Ue cresce meno dell’insieme dell’Unione. L’area non euro, infatti, cresce al 18,3%.
E l’Italia?
L’Italia cresce al 10,4% nei cinque anni ma si mantiene coesa nella separazione tra nord e sud: il Mezzogiorno cresce al 10,5% ed il centro nord al 10,3%.
Che cosa accade tra il 2000 e il 2007?
L’Italia riduce di molto la sua capacità di crescita in questo periodo. Scende ad 8,4% per sette anni, poco più di un punto percentuale all’anno, e si divarica tra sud e nord: 4,5% contro 9,7%. Il centro nord si integra verso l’area euro. Ma, contemporaneamente si vede chiaramente, nei dati dell’OECD sulla produttività, che dal 2000 al 2007 il prodotto potenziale pro capite, e le sue componenti (capitale per addetto, occupazione e capacità tecnologica) crollano a zero, rispetto alla crescita di produttività potenziale del 2000 con 1,5% annuo.
Come non bastasse, dal 2007 in poi si assiste ad un ulteriore decadimento, non è così?
Sì, perché dalla quota zero si arriva a – 0,7% nel 2011 e, successivamente, in una caduta di tutte e tre le componenti al di sotto dello zero, fino ad un – 1% annuo. Risultato: da quasi due decenni l’Italia non riesce a sviluppare un potenziale di produttività ed anche questa condizione ha reso profonda e difficile la recessione, e la disoccupazione conseguente dal 2007 ad oggi, mentre una flaccida ripresa si annuncia nel 2016, grazie a problemi di geopolitica mondiale ed al recente trauma della Brexit.
Ed è noto che un Paese che non abbia capacità di sviluppare produttività non può competere adeguatamente sui mercati globali. Giusto?
Negli ultimi due anni 2014/2016 ha trovato una leva, utile ma ancora inadeguata, nelle esportazioni e nella caduta dei costi dell’energia. Grazie al ridimensionamento del rapporto tra euro e dollaro in un canale tra 1,05 ed 1,15 dell’euro sul dollaro. Con una certa tendenza ad 1,11 nel secondo semestre del 2016.
Conferma che la crisi è un vero e proprio spartiacque storico?
Guardiamo ai dati. La graduatoria nel periodo 2000/2007 assume una configurazione, in termini di produzione accumulata nei sette anni, in questi termini: Grecia 32%; Spagna 27,7%; Area non euro 23,9%; Unione Europea 17% ed area euro 14,7%; Germania 10,3% ed Italia 8,5%; Mezzogiorno 4,5%.
Che cosa ci dice invece la graduatoria del periodo seguente, 2008/2014?
Dopo la recessione si assiste a un vero e proprio ribaltone. Ecco i dati. Area non euro 6,1%. Germania 5,3%. Francia 2,6%. Unione Europea 0,9%. Area dell’euro – 0,9%. Spagna 6,3%.
E l’Italia?
Italia – 9%. Ma il centro nord si trova a – 7 ,8% mentre il Mezzogiorno accusa un – 13,2%. Segue la Grecia – 26%.
Dopo il 2014 molti attendono una ripresa della crescita, considerando chiusa la stagione della recessione. Non è così?
Purtroppo, al contrario di quello che accade negli Stati Uniti, e malgrado i tassi a zero della BCE, la crescita non è in arrivo in termini adeguati e l’inflazione stagna sulla linea zero: sia nel 2015 che nel primo semestre del 2016. Nella sequenza tra 2014 e 2015 l’Italia rimane un paese al di sotto sia dell’Unione Europea che dell’area euro. I paesi che hanno assorbito le perdite recessive sono numerosi ma solo Francia e Germania arrivano al 2014 con un valore positivo reale.
Italia, Spagna, Grecia?
Non hanno ancora recuperato le perdite accusate dal 2008. In Italia, in particolare, il Mezzogiorno cresce più del centro nord nel 2015 ma non ha ancora fatto i conti con le perdite accusate nella recessione alle nostre spalle. I consumi del Sud aumentano meno di quelli del centronord perché lo scarto tra reddito procapite, al centronord ed al Mezzogiorno, è molto divaricato.
Passando dai numeri ai fenomeni, cosa possiamo dire?
Per fortuna si vedono le prime luci di investimenti, ma l’esportazione, grazie alla discesa del cambio tra euro e dollaro, rimane più efficace della spesa per investimenti nelle filiere meridionali dell’industria. Ricordiamoci, tuttavia, che abbiamo bisogno di aumentare la produttività e non solo di usare la scorciatoia dei cambi tra euro e dollaro.
Cosa può aggiungere sul nostro Mezzogiorno?
Nel 2008/2015 gli investimenti hanno avuto un calo del 40% nel Mezzogiorno mentre quelli del centro nord hanno avuto solo un calo del 26%. Nelle regioni meridionali si è chiusa la recessione, con il 2015, ma le regioni che accelerano sono quelle più piccole: Basilicata, Abruzzo e Molise.
E Campania, Puglia, Calabria?
Bisogna agire con determinazione su queste due regioni che insieme contano dieci milioni di persone. E trovare una ragionevole politica per la Calabria. Per il 2016 ed il 2017 la ripresa non sarà irruenta ma lenta. Mentre, per fortuna, si riprendono gli investimenti manifatturieri nel Mezzogiorno. Si riapre il mercato del lavoro ma nel Sud manca quasi mezzo milione di occupati rispetto a prima della crisi. Rispetto al centro nord il rischio di povertà e triplo nel Mezzogiorno.
Qual è la ricetta allora?
Abbiamo bisogno di investimenti e non solo di investimenti pubblici. Servono infrastrutture e serve energia. Servono reti per il turismo, e la cultura. E una nuova stagione dell’industria, che si deve fondare sulla cultura industriale e non solo sui capannoni e le macchine.
Soffermiamoci su questo concetto, che sembra cruciale nell’analisi del perché l’economia meridionale non ha colmato il divario con il Nord.
Le risorse umane sono la base della crescita. Serve poi una partnership tra industria e lavori pubblici e un ridimensionamento delle macchine burocratiche che impediscono la libertà di creare e di investire. La capacità di tornare a produrre, che abbiamo sperimentato dopo la ricostruzione dei danni di guerra e nel miracolo economico, deve essere il nostro punto di riferimento principale. Perché solo la capacità di cooperare e competere per produrre apre la strada ai mercati mondiali ed al mercato domestico e produce la crescita, che alimenta lo sviluppo.
1 thought on “CHE SUD CHE FA / PARLA MASSIMO LO CICERO: Ecco ciò che serve al Mezzogiorno per stare al passo con l’Europa”
Comments are closed.