L’autonomia differenziata non fa male solo al Mezzogiorno, ma all’intero Paese. Minando la tenuta dei conti pubblici, la coesione sociale, la competitività e i diritti. La doppia bocciatura arrivata da Napoli sulla riforma Calderoli, prima con un documento della Fondazione Mezzogiorno guidata dall’ex presidente di Confindustria, Antonio D’Amato e poi con l’audizione di ieri alla Camera del numero uno dell’Unione Industriali della città partenopea, Costanzo Jannotti Pecci, non è il frutto di una posizione “pregiudiziale” o di bandiera. Per due motivi. Il primo è che ormai la pattuglia degli oppositori della riforma si è trasformata, giorno dopo giorno, in un vero e proprio esercito, che comprende esperti di riconosciuta esperienza, anche internazionale, e istituzioni autorevoli. Il secondo è che la quantità di dati e di analisi, che rendono sempre più evidente le contraddizioni e i rischi della riforma, cresce sempre di più. Con una conseguenza sottolineata con forza da D’Amato: “L’indebolimento dei diritti, della coesione sociale, della competitività e la crisi che la riforma genererebbe sulla stessa tenuta dei conti pubblici anche in rapporto all’Europa, fanno sì che il dibattito sulle criticità non può essere circoscritto nel perimetro del Mezzogiorno ma è a tutti gli effetti una grande questione nazionale”. E ancora, per essere ancora più espliciti: “Non c‘è modo di mettere in sicurezza il rapporto deficit/pil se il Mezzogiorno non cresce in maniera significativa. Oggi l’Italia ha solo il 60% di occupazione della popolazione attiva. Dobbiamo arrivare al 70% e per farlo è necessario far crescere l’indice del Sud dall’attuale 42-43% almeno al 65%. Il Mezzogiorno che perde cervelli, che ha meno diritti, che si desertifica, che non è competitivo non sarà mai in condizioni di attrarre investimenti e contribuire alla messa in sicurezza dell’Italia”.
C’è poi un’ulteriore insidia che rischia di creare fortissimi danni al sistema produttivo e messa in evidenza in un documento della Fondazione Mezzogiorno curato da Massimo Bordignon, direttore Dipartimento Economia e Finanza dell’Università Cattolica di Milano e componente European Fiscal Board, Marco Esposito, saggista e giornalista de Il Mattino, Giuseppe Pisauro, ordinario di Scienza delle Finanze alla Sapienza di Roma, già presidente dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio, Sandro Staiano, direttore Dipartimento Giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli e presidente Associazione italiana dei Costituzionalisti. Ci sono infatti 184 funzioni potenzialmente trasferibili nell’arco di pochi mesi, con la procedura individuata dal ddl Calderoli, una volta che il testo sia licenziato dal Parlamento. Una procedura che, tra l’altro non prevede alcuna valutazione preliminare d’impatto della devoluzione né tanto meno un esame dell’effettiva utilità del trasferimento delle attività. Funzioni che vanno dai rapporti con l’Ue al commercio con l’estero, dagli ordinamenti professionali alla previdenza complementare fino alla giustizia di pace. Il rischio è che si ”possa creare una babele normativa e una moltiplicazione delle burocrazie, a scapito dell’efficienza del sistema complessivo” con inevitabili costi per le imprese e una perdita di competitività dell’intero sistema. Ci troveremmo di fronte ad una sorta di “Paese Arlecchino”, con una frammentazione di regole e ordinamenti, fonte “d’iniquità, di trattative differenziate annuali con le diverse regioni e su un set di materie potenzialmente diverse”. Come a dire: regione che vai, burocrazia che trovi.
L’autonomia differenziata, poi, si legge nel testo del Documento presentato ieri dall’Unione degli Industriali di Napoli nell’ambito delle audizioni alla Camera sulla riforma Calderoli, “impatta negativamente sull’equilibrio tra poteri centrali e territoriali, generando una frammentazione inaccettabile delle politiche pubbliche, in materie in cui spesso la stessa dimensione nazionale è inadeguata, occorrerebbe se mai ragionare in termini europei. La richiesta di compartecipazione al gettito fiscale raccolto nel territorio di ciascun ente regionale va, tra l’altro, nella direzione opposta a quella auspicata, di una maggiore coesione territoriale, e quindi di una tendenziale uniformità dei servizi pubblici assicurati in ogni regione”. Trasferire alle Regioni “competenze sull’energia, sui porti e gli aeroporti, sul commercio estero, l’istruzione, la gestione di pezzi di grandi infrastrutture, significa svuotare di contenuto lo Stato nazione. In termini pratici, vi sarebbe un cumulo di leggi e normative diverse a seconda dell’area in cui si trova a operare un’impresa, con un danno enorme per la certezza del diritto e la fluidità dell’attività economica”. C’è poi un ulteriore paradosso messo in evidenza dal presidente dell’Unione Industriali di Napoli, Costanzo Jannotti Pecci: se si intendesse procedere verso la definitiva attuazione del processo avviato, bisognerebbe in ogni caso risolvere il paradosso della persistenza delle Regioni a Statuto speciale. “Non si comprenderebbe altrimenti per quali motivazioni Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige dovrebbero continuare a godere di particolari forme e condizioni di autonomia costituzionalmente tutelata, pur avendo introdotto la possibilità teorica per qualsiasi Regione di conseguire livelli di autonomia così radicalmente distintivi rispetto alla configurazione storica ordinaria”. Insomma, un pasticcio in salsa leghista che rischia di andare contro anche coloro che pensano di trarre un vataggio delle nuove regole, in una “visione egoistica di breve periodo che ha perso di vista – conclude D’Amato – la necessità di una strategia più ampia in grado di riequilibrare la crescita, garantire la coesione sociale e assicurare la competitività e la tenuta dei conti pubblici dell’intero Paese”.