Corse sulla terrazza rivolta a sud per raggiungere la figlioletta di due anni. Naturalmente Bruna stava già avviandosi, aiutandosi con le mani, verso il piano superiore della casa, raggiungibile con una scala a chiocciola. Nel momento stesso in cui abbassò per un attimo lo sguardo vide ”la cosa”. Era nera e sembrava avere due teste. -”Non possibile”. Registrò il cervello. E subito dopo: – “La bambina può farsi male!”- Afferrò la piccola per un polso e chiamò a gran voce la prima figlia perché la raggiungesse. Naturalmente Fiammetta tardò a rispondere al richiamo: era in piena crisi adolescenziale e alquanto recalcitrante ad ubbidire. ”Fiamma, vieni SUBITO qui, per favore!”- insistette, sempre con l’attenzione divisa tra la”cosa“ e la sua ultimogenita. Fiamma finalmente giunse, incuriosita dal tono di urgenza che aveva intuito nella voce della madre e poté così affidarle la piccola per qualche minuto, per cui il suo interesse si spostò sull’essere incredibile fermo sul bordo del terrazzo: lungo non più di tre centimetri, a prima vista poteva sembrare un grosso ragno, ma decisamente non lo era. Aveva un piccolissimo musetto da topo, con le orecchie enormi rispetto al corpo. La primitiva sensazione che “l’animaletto” avesse due teste venne “archiviata“ dopo un più attento esame: aveva quattro ”zampe”, o qualcosa di simile ad esse e quelle davanti possedevano due minuscoli moncherini al posto delle minuscole ”manine” con cui terminavano quelle di dietro. L’esserino era certamente terrorizzato. Il suo cervello le diede finalmente risposta alla prima domanda che si era posta nel vederlo: Cos’é?” – “E’ un piccolo di pipistrello”. Sembrava assurdo. Ne aveva visti di più grandi, circa cinque volte più grandi, compiere evoluzioni intorno alla luce dei lampioni, di notte. Ne aveva visto uno molto da vicino, anni prima, caduto in volo. Ma quello che adesso stava osservando era ”un cucciolo”. Di qualunque razza animale fosse era comunque “un cucciolo”. Doveva prenderlo. Ma come? Non voleva usare le mani nude perche ”l’essere” la inorridiva. Prese un cartoncino e costrinse il piccolo a strisciarvi sopra. Ebbe una sorpresa e con lei la figlia Fiamma: il piccolo si muoveva con una destrezza incredibile, facendo leva sui due moncherini davanti. Rischiava di ritrovarselo sulla pelle. Entrò in casa seguita dalla figlia e accolta dalla curiosità del figlio maschio di nove anni e di una nipotina. Rino sembrava galvanizzato dalla scoperta del “mini-pipistrello”, ma appena fu dentro la cameriera (Lina), lanciò quasi un urlo:- “Mozzeca, signo’!” -“Impossibile”. Rispose lei di rimando. In quel momento si rese conto di essere ridicola, così preoccupata di non toccare quel piccolo animale indifeso con le mani. Il cucciolo si arrampicò velocemente su di un dito, poi le scivolò dolcemente sul palmo della mano e riprese il suo cammino sempre più spaventato. Michela lasciò che si stancasse, facendolo passare da una mano all’altra e intanto cercò sull’enciclopedia alla voce “pipistrello”. Ricordava che fossero mammiferi e pensò di nutrirlo con del latte. Ad una prima ricerca il termine “mammifero” non risultò. Il pipistrello é un insettivoro, decretava il libro. Ma il mio pipistrello non sembrava potesse gradire mosche o moscerini. Meglio tentare con il latte. Mentre l’esserino continuava imperterrito i sui giri da un dito all’altro, con grande maestria e urlando ai suoi figli maggiori:- “Fate attenzione a Bruna!”- cercò affannosamente nell’armadietto dei medicinali una bottiglietta munita di contagocce. La prima che le capitò tra le mani conteneva un liquido troppo pericoloso, così accadde per la seconda. Alla fine trovò le gocce di ”cecon” e, tenendo imprigionato il piccolo in una mano, lavò il contagocce, riempiendolo poi di latte. Nutrire il piccolo si rivelò impresa difficile: si muoveva di continuo e non capiva il senso dell’operazione che la ”padroncina” tentava di effettuare. Intanto, bagnando con delicatezza il musetto incredibilmente minuscolo dell’esserino, provò a trovargli un nome, come sempre faceva in occasioni simili, ma fu un fallimento, perché non le veniva a mente nulla di consono. Ai contrario il suo tentativo di nutrizione ebbe successo in quanto il piccolo sembrò gradire – finalmente – il latte e cacciò una invisibile linguetta per succhiarlo. Prima goccia, sternuto, seconda goccia, secondo sternuto perché le infinitesimali narici sembravano affogare in quelle dense gocce bianche. -“Non ci si può affezionare ad un pipistrello!”- Pensava intanto Michela. -“Mamma, lasciamelo toccare!”- “Pretendeva Rino.”- “Attenti alla piccola, può farsi male!”- Insisteva Michele inquieta, notando che Bruna, utilizzando la distrazione degli adulti, tentava una scalata al comodino della stanza da letto dove si trovavano tutti. Ritornando all’animaletto Michela si disse che, per come era differente da loro fisicamente, avrebbe potuto anche essere un “marziano”, un alieno insomma, così battezzò l’esserino: “Alieno”. Andava bene il nome. Le ricordava possibilità remote di extraterrestri piombati sulla terra, di forme viventi dissimili della razza umana. Alieno” era ” GIA”‘ sulla terra, così piccolo e assurdo nelle sue forme e così perfetto per le vita che avrebbe dovuto condurre da, adulto. – “Quant’é carino!” – si ritrovò a dire. I figli maggiori ed anche la più piccola si mostrarono unanimemente d’accordo: – “Mamma, possiamo e accarezzarlo?”- Chiesero. Lei lasciò che e turno passassero le dita delicatamente sul dorso di Alieno, leggermente coperto di peluria come quello delle farfalle. Il piccolo allora, oramai sazio, si rifugiò nel palmo della sua mano, al caldo ed al sicuro: aveva trovato una mamma. -“Dove lo metto adesso?”- “Chiese Michela, già mamma, alla ”sua” mamma che viveva con lei. E la madre, memore di colombi allevati amorosamente, di cagnetti cresciuti dall’età di un giorno e di piccoli passeri implumi caduti dal nido, non mostrò stupore nel notare l’affetto che vibrava già nella voce della ancor giovane figlia. L’aiutò a cercare “un nido” per il piccolo, che mostrava capacità inaudite di fuga da ogni scatolo di qualsiasi grandezza. Si convinsero alfine ad usare un barattolo in vetro dove Alieno fu deposto, appoggiato ad un panno di lana. Michela però non avrebbe scommesso una lira sulle sue capacità di sopravvivenza. Fu con stupore che costatò un’ora più tardi, l’ottima salute di cui godeva. Il piccolo e la mattina successiva il gusto con cui sorbiva il latte e ricercava poi il tepore della sua. mano. La sera successiva, con il piccolo nel pugno, seguì un breve documentario televisivo e poi ripose l’animaletto nel “nido”. Alieno in quel momento iniziò a “chiamarla”. Un trillo, uno stridio, un suono che sembrava quasi un ultrasuono. Alieno chiamava lei, senza dubbio. Lo riprese tra le mani e lui tacque ed ancora bevve tra gli sternuti, un paio di gocce di latte. Poi passò da una mano all’altra e stridette di nuovo. I “suoi cuccioli”, incuriositi, tesero le orecchie per percepire il suono. Rimesso nel nido il piccolo chiamò a lungo e poi si quietò. A distanza di un giorno era pieno di combattività e di appetito. Lo trovò intento a pulirsi una minuscola ala velata, quasi fosse un adulto. Nel riprenderlo in mano riascoltò lo stridio gioioso del cucciolo che si rintanò al sicuro nel suo pugno. Alieno le aveva insegnato qualcosa di se stessa: sapeva amare anche un essere così ”brutto o diverso”, provava per lui una sorta di “amore materno”. Avrebbe amato così anche un essere di un’altra razza, giunto da un altro mondo? Sì, lo avrebbe amato. E con più amore avrebbe amato un figlio, se le fosse nato deforme. Lo avrebbe amato. Provò allora una sorta di commozione per la natura tutta, por l’universo intero e per quel Dio che doveva pur esserci al di qua o al di là dell’infinito, che le aveva posto nell’animo quella spossante e meravigliosa capacità di amare.