Quel popolo che disprezzato da regi funzionari ed infidi piemontesi sentiva forte sulla pelle che a noi era negato ogni diritto, anche la dignità di uomini.

E chi poteva vendicarli se non noi, accomunati dallo stesso destino? Cafoni anche noi, non più disposti a chinare il capo. Calpestati, come l’erba dagli zoccoli dei cavalli, calpestati ci vendicammo”

Carmine Crocco

 

La storia comincia qui. Nella Grancia di Brindisi di Montagna, provincia di Potenza, osso dell’osso più duro, la polpa è tutta nella testa dei “resistenti resilienti”. Il “popolo delle formiche”. I “mirmidoni”. In mancanza dei miti fondativi, sterminati per effetto della verità dei vincitori (la narrazione post risorgimentale), le genti del Sud prendono a prestito simboli utili a consolidare le insopprimibili istanze identitarie. Non ci sono ampolle, qui, né fonti d’acqua a cui attingere per il cerimoniale. Qui solo vino che affiora tra le polle dei terreni sulfurei, spremuto come sangue dalle croste calcaree dei monti.

 

CORREVA L’ANNO…

Correva l’anno 2019, diranno – forse – le sentenze dei posteri. Oggi è ancora presto per dire se sabato 24 agosto resterà una data di svolta e da non dimenticare, magari da celebrare ogni dodici mesi. Nel primo parco storico, rurale ed ambientale d’Italia, cinquanta ettari di boschi erpici, ampie radure e isolati capanni nel cuore della Lucania, persiste vivo il mito del brigantaggio. A occhi socchiusi si può riascoltare l’eco della voce tonante di Carmine Crocco. Le cronache riesumate dalla messainscena al calar del sole nell’anfiteatro del Parco raccontato – sotto le insegne della Storia bandita – le gesta del bracciante e militare borbonico che si diede alla macchia per mettersi a capo di duemila uomini, divenendo il capo indiscusso delle bande del Vulture e fece della Basilicata uno dei principali epicentri del brigantaggio post-unitario nel Mezzogiorno continentale.

E’ qui che Pino Aprile ha chiamato a raccolta alcune centinaia di uomini del Sud agganciati in mesi di attività sui social e decine di incontri in tanti luoghi del Mezzogiorno, per annunciare il proposito di promuovere una nuova formazione politica in grado di “affrontare una emergenza democratica”: riportare il Mezzogiorno al centro dell’agenda istituzionale del Paese. Qui risuona il monito del giornalista scrittore che ha dedicato la maturità al compito di promuovere una rilettura critica della storia post-unitaria del Mezzogiorno, una revisione del racconto risorgimentale dalla spedizione dei Mille ad oggi. “Ora basta – afferma – con il tentativo di scippo ai danni del Mezzogiorno consumato con i progetti di autonomia differenziata promossi da Emilia – Romagna, Lombardia e Veneto, si è colmata la misura”.

Progetti sventati, non a caso da due uomini del Sud: l’ex premier Giuseppe Conte e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Niente autonomia si può fare nel segno di una Costituzione che vincola l’Italia al dovere della solidarietà interna. E siccome è stato appena sventato – ma non si sa per quanto – l’assalto di Salvini ai pieni poteri, il tempo degli indugi è finito.“E’ l’ora di tutti, di tutti i meridionali, tutti uniti contro il disegno di infliggere al Sud l’ultima mazzata. Da ora in poi – aggiunge – o ci sarà per il Meridione il risarcimento di una vera equità o sarà secessione. Un Paese non ha diritto a chiamarsi nazione se nel suo territorio ci sono cittadini di serie B”.

 

SEPARARSI SECONDA SCELTA

La parola è un tabù, sembra, non appena viene pronunciata a Sud del Garigliano. Per decenni è serpeggiata nelle manifestazioni del Carroccio, in maniera talvolta esplicita. Secessione da Roma ladrona, aggancio alla locomotiva tedesca e abbandono del Mezzogiorno alla deriva mediterranea. Lo disse l’ideologo della Lega, Gianfranco Miglio, agli esordi. Lo hanno ripetuto tante voltr gli uomini di Bossi, Salvini incluso. Ma la secessione è scandalo solo se la paventano gli uomini della Grancia. Non come prima opzione, ma come scelta obbligata se l’Italia decide di restare un Paese a due volti, con due economie e diritti a geometria variabile. Se – per capirci – non intende più affrontare con politiche nazionali il divario interno più grave al mondo. Se si vuole mandare in soffitta come guasto orpello del passato la questione meridionale. Quando a una città viene negato il treno in stazione, poco importa che sia Matera o Sondrio: ci sono degli italiani ritenuti di serie B e il cui diritto ad avere il necessario viene dopo il superfluo assegnato a chi già ha. Restiamo italiani – spiega Aprile -solo a patto che si riaffermi il principio che cittadini di uno stesso Stato debbano avere diritti, possibilità e trattamenti uguali. In caso contrario quello Stato non merita di esistere”.

 

LA FINZIONE DELLA UNITA’

E se proprio non si vuole tornare sul passato, alle sue ombre e ai suoi fantasmi ancora stipati negli armadi della coscienza collettiva, tocca almeno guardare alla realtà fattuale di un divario territoriale che ogni anno si fa più ampio e radicato. Prendere atto che in un’Italia inchiodata alla crescita zero, la corona di spine sul capo la porta il Mezzogiorno in recessione: che nel giro di pochi anni ha conosciuto il calo demografico dopo la desertificazione dell’economia legata all’industria pubblica. Se proprio non si vuole rimettere il dito nelle “pustole” della nazione, che volendo risalgono alla fisiognomica lombrosiana a cui a Torino è dedicato ancora un museo (l’unico al mondo che si consente di esporre come cimelio scientifico un cranio di un essere umano, meridionale) … Se tutto questo è vittimismo e nostalgia neoborbonica, almeno facciamoci carico di generazioni di giovani costretti a cercare un avvenire in giro per il mondo. I tratti umilianti di interi paese del Mezzogiorno svuotati che rischiano l’estinzione come entità politica e amministrativa.

 

DOPO EBOLI

E’ vero, nel Sud Cristo non si fermato più a Eboli, magari è arrivato anche alla Grancia di Brindisi di Montagna. Ad Eboli dove tra l’altro nacque e abortì negli anni Novanta il movimento dei nuovi sindaci. Ma nel Sud mancano tutti i presupposti per l’innesco di processi di sviluppo: treni, binari, stazioni, alta velocità; e porti e aeroporti degni del nome. Un terzo del territorio italiano, venti milioni di persone (più di quanti ne contano tanti Stati nuovi entranti dell’Unione europea), uniti solo da telefonini e rete Internet: quando c’è e dove funziona. Che fare, allora? Alla domanda il pizzetto di Pino Aprile diviene intuitivamente somigliante a quello di Lenin, se è lecito. Che non è bravo a fare un partito, lo ha detto più volte in questi anni. Il movimento che nasce ha quindi i tratti di una federazione di realtà locali a cui consente di dare il suo apporto. Si accettano proposte del popolo delle formiche: dal treno per Matera alla difesa delle produzioni locali, dal turismo sostenibile alle nuove forme di energia carbon free di cui il Mezzogiorno è esportatore.

 

SENTIMENTI E PORTAFOGLI

Si formano gruppi di studio. Si parte. Del resto è bastato minacciare che i bar pugliesi o campani non servissero più i vini veneti per qualche giorno ad innescare la preoccupata reazione dei giornali del Nord. “Succede – afferma Aprile con un tocco di sarcasmo – perché lassù hanno dei sentimenti e sono tutti nel portafoglio”. Nessuno può dire se sta nascendo oggi il processo di agglomerazione che il Sud attende, dopo anni di frantumazione, individualismi e diaspora. Le spinte centrifughe e i distinguo sono sempre attivi. Ma Aprile ha gettato il dado, disposto a metterci la faccia. Con quale esito non è dato di saperlo. Ma è sicuro l’impegno in prima persona, anche se lo distoglierà dal mestiere che ama di più, scrivere. Si occuperà di tenere le fila di tante iniziative puntuali di innumerevoli associazioni ispirate al riscatto del Mezzogiorno. “Tante persone ordinarie – aggiunge – che hanno urgente bisogno di fare cose straordinarie”. Con nessun’altra aspettativa che il potere dei vinti, perché gli unici ad avere vitale interesse a cambiare le cose.

Claudio D’Aquino

Di Redazione

Claudio D'Aquino, napoletano, giornalista e comunicatore di impresa