Sulla sua scrivania a Palazzo Chigi Matteo Renzi, ieri sera, aveva un foglietto con su scritto: “19 o 26 marzo, o, al massimo, 2 aprile”. Sono le tre date in cui si potrebbero svolgere le elezioni anticipate. Le ha comunicate ai maggiorenti del suo partito e anche ad alcuni alleati di governo. Per la successione si parla di Padoan, per rassicurare i mercati, o Franceschini, per la legge elettorale, o Gentiloni in vista del G7.
Se ingoia lo stop del Quirinale e l’ipotesi di “un governo di responsabilità nazionale”, come lo chiama lui, Matteo Renzi lo fa marcando subito le distanze e lasciando intuire quale sarà il suo atteggiamento nei confronti del successore, sempre che ne venga fuori uno. Mentre fa gli scatoloni, nello studio al primo piano di Palazzo Chigi, tra una telefonata di Hollande e una di Obama, il premier prepara la direzione del Pd di questo pomeriggio, le dimissioni da presidente del Consiglio che consegnerà a Sergio Mattarella “oggi o domani”, ma soprattutto il futuro. “Il 60 per cento del No viene interpretato come un voto politico, giusto? Contro di me, contro il mio carattere, contro i nostri provvedimenti. Allora anch’io posso considerare politico il 40 per cento del Sì. Questo me lo concederanno”, dice ai suoi collaboratori. “Non me lo intesto tutto, per carità. Non saranno 13 milioni di voti miei, è ovvio. Ma saranno 10-11-12? Lo vedremo”. E lancia frecciate a Bersani: “Pur di mandare a casa me, accetta di ufficializzare Verdini”.