di Claudio d’Aquino
Scrivere di Pino, forse parlare a Pino, non si può evitare. Non si può evitare il discorso diretto, a base di TU, come con un amico, come a un congiunto che ci ha lasciato una mattina senza chiedere il permesso.
Parlare in prima persona di lui, con lui, è inevitabile. Anche per chi non lo ha mai conosciuto. E’ un discorso a voce solista, in cui manca l’allocutore, ma è una assenza lieve e tollerabile: come referente Pino Daniele resta per sempre. Perché tanti, tantissimi (i più) lo hanno conosciuto dal suo lato migliore: la musica e, spesso e volentieri, la sua poesia.
Non senza un eccesso di confidenza dico che a me non piaceva. Non piaceva di lui l’essere stato scagliato da subito nell’Olimpo della napoletanità. Quell’appartenere di diritto, quasi honoris causa, al Pantheon agiografico e stucchevole, quel conclave al limite con kitch che lo voleva seduto al tavolo dei dodici apostoli della napoletaneria. Assieme a Maradona e Vittorio De Sica, Eduardo e Sofia. Assieme, va da sé, con Massimo Troisi, che è poi colui che, inconsapevolmente, lo ha trascinato lì.
Invece poi col tempo ho capito. Pino non aveva che una parentela molto lontana con tutto ciò. E da tutto ciò si teneva accuratamente a distanza, come da una famiglia chiassosa e rintronante con la quale si intrattengono sentimenti che sono il combinato di simpatia e di fastidio, tenerezza e inquietata seccatura.
Questo ha fatto di lui un napoletano, ma fino a un certo punto. Un napoletano nella maniera e misura dovuta. Anzi, a dirla tutta, più si allontanava da Napoli (anche fisicamente, andando a vivere a Formia, scelta che a molti è sembrata una scelta eccentrica, ben perdonabile, di artista) e più ha evitato di alimentare il mito di sé, quel culto scomposto e un po’ ipocrita che avrebbe finito per soffocarlo come sotto una campana di vetro, di quelle che, dalle nostre parti, custodiscono santi e madonne.
Napoli ti prende alla gola e talvolta ti toglie il respiro, ragione per cui molti uomini di spettacolo (e anche di calcio), la evitano. Oppure, dovendoci vivere per forza anche se per un breve periodo, finiscono chiusi in una sorta di eremo senza porte né finestre…
Sicché le poche volte che Pino ha usato il microfono per parlare di Napoli, le pochissime volte che ha parlato della sua città e alla sua città, lo ha fatto in punta di piedi. Come un turista che sa di essere sul punto di partire, la sera o al massimo il giorno dopo. E comincia ad apprezzare quello che lo ha assalito e gli ha tolto il fiato a ogni chilometro, a ogni ora di distanza che mette: quando la vitalità fragorosa e smodata di Napoli si affievolisce, cedendo il posto al ricordo e alla nostalgia. Pino Daniele non ha mai permesso alla sua anima di inacidirsi inseguendo il sogno o il proposito – il progetto – di fare a Napoli che so, una scuola di blues o di musica, come invece accadde a Eduardo con il suo San Ferdinando. A Eduardo semmai lo lega qualche asprezza di carattere di cui si dice, rivolta a musicisti o collaboratori coi quali ha avuto rapporto. Ma questo se è accaduto, è perdonato. Come del resto anche a Eduardo.
Quel che conta è che Pino Daniele, napoletano per destino, è stato “napòlide” per scelta. Napòlide nella medesima, esatta accezione che Erri De Luca attribuisce a questo neologismo nel libro affidato ai tipi di Dante & Descartes. Napòlide, ossia uno che è nato a Napoli e che da Napoli si stacca, fin quasi a perdere cittadinanza. E “… porta nel sistema nervoso – scrive De Luca – un apparecchio cerca persona messo dalla città in ognuno di noi”; un microchip installato sotto pelle all’atto della nascita. “Per uno che scrive di Napoli, lontano da lì – aggiunge -, fuori tema è la premessa. Napoli è il tema e io ne sono fuori…”.
E così da una distanza nient’affatto siderale, ma che somiglia più a un’orbita ellittica, Daniele andava come preso da una spinta centrifuga “fuori Napoli”. E tornava a un certo punto “verso Napoli”, come catturato nel movimento a ritroso da una forza gravitazionale. E questa è stata la sua fortuna e la nostra, di napoletani. L’alternanza di alta e bassa marea, l’andamento pendolare, ci ha dato versi e melodie che sono diventati patrimonio dell’umanità. Spariti i giochi di prestigio con il dialetto, coi modi di dire e le allocuzioni patrie, chiuso il capitolo del lessico familiare che indugia sulle tazzulelle di caffè, per quanto mitigati da una vena sottile di ironia, la voce di Pino è diventata voce poetica di tutti. Fino all’acme raggiunto anni fa, che toccò con un componimento che, non a caso, mette Napoli alle spalle. In cui la lava è quella dell’Etna e il sale appartiene al mare più prossimo alle origini: alla Grecia. Una canzone meridiana nel senso pieno del termine. Sicily che sa di risacca e di vento di levante, struggente come il pianto delle donne ritmato dal battere di nocche. Un posto ci sarà, fatto di lava e sale, nel luogo in cui si trova.