Politica interna
La frenata di Salvini sull’accordo – «Alto rischio, bassa resa» «Altissimo rischio politico, bassa resa». Sono le cinque parole attribuite al leader che nelle ultime ore in Lega si diffondono come fossero uno slogan. Ma è uno slogan per la campagna elettorale. Lo dice Giancarlo Giorgetti all’uscita dal Quirinale. Il capogruppo leghista alla Camera, di fronte alle telecamere e ai taccuini spalancati, si lascia andare. Gli chiedono se la Lega si stia avviando verso un accordo con i 5 stelle. E lui risponde: «Per le elezioni… ». Lo staff leghista si affanna a precisare: solo una battuta. Ma è quella che dà il segno alla giornata. E le parole molto nette di Salvini dopo l’incontro con il capo dello Stato («Gli accordi un tanto al chilo non fanno per me») sono il segno, dicono i suoi sostenitori, di una svolta: «Siamo usciti dal piano inclinato. L’accordo con i 5 stelle non è più inevitabile». Il momento più drammatico è forse ieri mattina. L’ansia è palpabile. Cresce man mano che si avvicina l’appuntamento istituzionale, chiesto come un rilancio al buio senza le carte giuste in mano. E così, dopo aver cercato Mister X per un intero week end, filtra una coppia – l’economista Giulio Sapelli e il giurista Giuseppe Conte – che non supera la barriera del buonsenso. I grillini almeno avanzano la propria proposta, Conte appunto. I leghisti no, nomi non ne fanno. Non si oppongono all'”idea Conte”, ma soltanto per rispetto del copione. In compenso, i due leader si dividono di fronte alla nuova forzatura del fedelissimo di Davide Casaleggio. «Non ne usciamo – sostiene Di Maio, faccia a faccia con l’alleato – a meno che non accetti che sia io il premier». «Non esiste», la replica di Salvini. Massimo Franco scrive sul Corriere della Sera che “ormai ci si sta avvicinando a quel limite oltre il quale l’appuntamento con la storia rischia di trasformarsi di colpo in pasticcio e involontaria farsa. Già il fatto di affidare al voto online del Movimento l’approvazione del «contratto» in gestazione lascia perplessi. Non si può pretendere dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, un’apertura di credito prolungata, per poi rischiare che i risultati raggiunti vengano smentiti da un «voto popolare» virtuale e assai poco trasparente. Lo stesso vale per la Lega, intenzionata a indire una «consultazione tra la cittadinanza» in gazebo allestiti nelle piazze il 19 e il 20 maggio. Hanno tutta l’aria di espedienti paralleli per scaricarsi dalle responsabilità di un’intesa in bilico”.
Berlusconi resta alla finestra: Niente sconti a chi governa. Silvio Berlusconi ha ormai ricaricato le pile e viene descritto agguerrito, deciso a riprendersi la scena e a rendere Forza Italia nuovamente protagonista. Il Cavaliere ieri ha evitato di commentare il cammino accidentato della trattativa tra Lega e Cinquestelle. Ha apprezzato il ringraziamento rivolto da Matteo Salvini a lui e a Giorgia Meloni e la dichiarazioni con cui l’alleato leghista ha ancorato la sua collaborazione con Luigi Di Maio al rispetto per la sua appartenenza al centrodestra. A questo punto Forza Italia resta alla finestra. Se i leader della Lega e Cinquestelle riusciranno a varare l’esecutivo la linea resta di farlo partire, ma senza sconti. Di certo Forza Italia sta rafforzando il proprio profilo critico. Berlusconi e i suoi dirigenti non chiederanno nessuna poltrona proprio per marcare le distanze e avere le mani libere. Il consiglio al numero uno del Carroccio è sempre più quello di tornare a muoversi esclusivamente nell’alveo di centrodestra. Intervistato dal Correire della Sera Antonio Tajani, presidente del Parlamento europeo dice: «Credo che Salvini si stia rendendo conto che aveva ragione Berlusconi quando diceva che sarebbe stato difficile fare un governo con il M5S, perché abbiamo diverse visioni della democrazia». «FI è all’opposizione rispetto a questa ipotesi di governo, ma non abbiamo voluto ostacolare il tentativo e non lo faremo. Continuiamo a credere che con il M5S non sia possibile trovare un’intesa che serva all’Italia, e non vogliamo violare il patto fatto con gli elettori. Pensiamo serva un governo che faccia contare il nostro Paese in Europa, forte e autorevole. Per essere chiari su un punto decisivo: per cambiare i Trattati, come si Per noi la strada maestra è sempre la stessa: un governo di centrodestra che vada che vada a cercare i voti in Parlamento su 5-6 cose da fare. Non abbiamo cambiato idea».
Politica estera
Festa a Gerusalemme con l’ambasciata Usa. Disordini e morti a Gaza «È un grande giorno», esulta Donald Trump. Lo omaggia Benjamin Netanyahu: «Hai scritto una pagina di storia». Mentre a Gaza si muore, in un contrasto stridente è festa a Gerusalemme. L’inaugurazione della nuova ambasciata Usa segna il trionfo di Netanyahu. Ed è «un’altra promessa mantenuta», per il presidente degli Stati Uniti. Forse prelude all’apertura di un nuovo capitolo nel Medio Oriente, con l’asse Usa-Israele-Arabia saudita che vuole trasformare i rapporti di forze nell’area, e andare alla resa dei conti con l’Iran. Non solo per il governo Netanyahu ma anche per una maggioranza degli ebrei israeliani, e per la Casa Bianca che ha voluto dare questo segnale forte, lo spostamento dell’ambasciata da Tel Aviv è un atto dovuto, è il riconoscimento di una realtà. Le proteste si limitano a Gaza – fanno notare i collaboratori di Trump – mentre da Gerusalemme Est alla Cisgiordania non vi sono segnali di una Terza Intifada. Sempre le stesse fonti americane sottolineano l’isolamento palestinese (in particolare Hamas-Gaza) rispetto ai sostenitori di una volta, non solo l’Arabia saudita ma anche Egitto e Giordania.
Mentre gli Usa aprono la sede a Gerusalemme, i palestinesi marciano contro la barriera al confine I soldati israeliani sparano. Alla fine i morti a Gaza sono oltre 50. Le due facce del dramma, in questa fase, sono ben visibili nelle immagini offerte dalla cronaca nelle ultime ore: da un lato i manifestanti di Gaza, ma anche della Cisgiordania, mobilitati dalla patetica marcia del ritorno” cominciata il 30 marzo, la quale già conta in pochi giorni un centinaio di morti e migliaia di feriti; dall’altro l’inaugurazione dell’ambasciata americana a Gerusalemme, trasferita da Tel Aviv, avvenuta con una festosa cerimonia cui hanno partecipato gli stretti familiari di Donald Trump appena arrivati da Washington. L’apertura della rappresentanza degli Stati Uniti ha assunto il chiaro significato di un riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte della superpotenza. Donald Trump poteva rinviare il trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme, e comportarsi come quasi tutti gli altri paesi, mantenendola a Tel Aviv. Poteva insomma attendere un negoziato, anche se per la verità l’attesa dura da troppo tempo. Come quando si è ritirato dall’accordo sul nucleare iraniano Donald Trump si è allineato sulle posizioni del governo israeliano, abbandonando ancora una volta il ruolo di mediatore, che i predecessori avevano a stento mantenuto, pur non nascondendo l’alleanza con Israele. Barack Obama è stata una parentesi che Donald Trump ha chiuso.
La Catalogna ha un nuovo presidente. Barcellona ha un nuovo presidente al posto del fuggiasco Caries Puigdemont, ma non è un uomo che aiuterà la distensione verso Madrid, tutto il contrario, sembra un presidente da battaglia e per di più a tempo. Si chiama Quim Torra i Pla ed è un ultrà del secessionismo. E stato eletto ieri con un velo di maggioranza: 66 voti a favore, 65 contrari e 4 astenuti, ma nulla è sicuro tranne che la sorpresa è dietro l’angolo. La Corte Costituzionale potrebbe annullare la nomina per l’irregolarità del voto a distanza di sei indipendentisti in fuga o in cella, il re potrebbe non controfirmare, in ogni caso Torra si considera solo un reggente «temporaneo» per «nome e per conto di Puigdemont». La durata del mandato dipenderà dalla convenienza elettorale o dalla possibilità di cedere la carica a Puigdemont. Cosi all’apparenza, Barcellona sembra prigioniera del suo recente passato e di una dichiarazione unilaterale di indipendenza, quella del 27 ottobre scorso, che non è andata da nessuna parte. Perché l’Europa, e il resto del mondo, hanno voltato le spalle a quella metà di elettori catalani impegnati nella secessione dalla Spagna. Oggi, come primo atto ufficiale, Quim Torra andrà a Berlino per incontrare l’ex presidente Puigdemont, e insieme offriranno una conferenza stampa per sottolineare la continuità del nuovo governo con quello soppresso da Rajoy sette mesi fa. Ma in realtà è la profonda divisione sul che fare nel futuro, emersa all’interno delle famiglie nazionaliste in questi mesi, che apre molte incognite. E dubbi, perfino sulla durata del nuovo esecutivo, considerato da molti di transizione e provvisorio, quasi balneare, in attesa degli eventi.
Economia e Finanza
Btp Italia, richieste già per 2,3 miliardi. Il Tesoro chiama e il mercato retail risponde. Il primo giorno di emissione del Btp Italia viene archiviato con una raccolta ordini superiore a 2,3 miliardi di euro per un totale di 33.238 contratti. Alla giornata di offerta di ieri seguiranno quelle di oggi e di domani, riservate ancora al mercato dei risparmiatori, e poi quella di giovedì (solo la mattina) dedicata agli investitori istituzionali. Il tasso annuo minimo garantito è pari a 0,4%, ma il dato definitivo sarà fissato al termine dell’emissione. Potrebbe essere rivisto al rialzo, in base all’andamento dei tassi sul mercato della giornata di chiusura, o semplicemente confermato. Intanto è possibile tracciare un primo bilancio della tredicesima emissione del Btp Italia, ossia del titolo di Stato pensato per il mercato retail e indicizzato all’inflazione italiana. Gli ordini pari a 2,306 miliardi di euro hanno superato il valore di 2,186 miliardi, registrato nel primo giorno di offerta del precedente Btp Italia, collocato nel novembre scorso. Un esito che può essere considerato positivo alla luce del fatto che l’emissione proposta a partire da ieri riguarda titoli con una durata di 8 anni (la scadenza è il 21 maggio 2026), anziché 6 anni come abitualmente avviene con il mercato retail. Intanto segnali positivi arrivano anche da Mps. Gli investitori ieri hanno comprato a mani basse il titolo Mps, volato per l’intera seduta anche di oltre il 7% per poi chiudere a 3,28 euro con un rialzo del 2,5%, in seguito ai conti del primo trimestre migliori delle attese, dopo il +17% di venerdì. Gli acquisti, con scambi pari all’1% del capitale, hanno mostrato un ritorno di fiducia verso una banca che, ha detto il ceo Marco Morelli, «ha voltato pagina e ha cominciato ad operare come azienda normale». In due sedute la banca senese ha recuperato il 20% e così, in parte, il valore perso dal ritorno in Borsa a 4,55 euro del 25 ottobre 2017. Il Tesoro, primo socio, si trova comunque con una minusvalenza imponente: ha investito 5,4 miliardi per un 68% che oggi vale 2,5 miliardi, anche se il ministro dell’Economia uscente, Pier Carlo Padoan, ha sempre detto che i conti si faranno quando lo Stato uscirà, nel 2021, anche se la exit strategy andrà definita nel 2019.
Def. L’Italia ha inviato la relazione a Bruxelles. Sono l’avanzo primario in crescita, la traiettoria di discesa del debito e il rispetto del braccio preventivo del Patto di stabilità gli argomenti chiave delle “controdeduzioni” italiane all’esame Ue sul passivo italiano. A metterle nero su bianco è il Mef, che ieri ha diffuso la relazione sui «fattori rilevanti» inviato a Bruxelles in vista del rapporto sul debito italiano che anche quest’anno la commissione si appresta a scrivere in base all’articolo 126.3 del Trattato Ue. Il rapporto è lo strumento con cui la commissione mette sotto osservazione i debiti pubblici problematici (l’Italia non rispetta la regola del debito nemmeno secondo le proiezioni dell’ultimo Def). Nella nuova relazione, però, il ministero dell’Economia ci tiene a sottolineare che a consuntivo la realtà potrebbe essere un po’ più rosea di quella messa nero su bianco dai documenti di finanza pubblica. Il debito al 131,8% del PII registrato nel 2017, con una mini-discesa da due decimali rispetto all’anno prima, dipende prima di tutto dalla lettura “rigorista” di Eurostat sugli interventi salvabanche che ha chiesto di considerare nei calcoli anche le perdite potenziali. Senza, il debito italiano sarebbe al 130,8%, oppure al 131,4% calcolando le sole spese effettive. Emergono intanto sempre più le differenzi di impostazione tra Lega e 5 Stelle. II punto d’incontro fra le ipotesi a Cinque Stelle, al momento fedeli alla linea di riduzione del deficit tracciata nell’ultimo Def, e quelle di una Lega che continua a spingere per salire vicini al 3% andrà trovato non solo nel «contratto», ma anche nella discussione parlamentare in vista delle risoluzioni al Documento di economia e finanza. Programmi di deficit e debito saranno al centro del confronto di oggi, insieme al capitolo su banche e risparmiatori slittato ieri per gli stop imposti dalle consultazioni al Quirinale. II tema europeo, però, non può essere giocato solo in chiave domestica, perché da definire è anche l’atteggiamento che l’Italia avrà nei vicini appuntamenti internazionali che preoccupano il Colle: la riforma della governance dell’area Euro e la discussione sul prossimo bilancio Ue. Ma non c’è solo Bruxelles a dividere Lega e Cinque Stelle. Sull’incrocio fra giustizia e fisco è ancora la riforma dell’Irpef a due aliquote lo snodo per far andare d’accordo le idee garantiste della Lega con quelle più severe dei Cinque Stelle: sul presupposto dei tagli fiscali, infatti, anche il Carroccio si dice d’accordo all’idea delle “manette agli evasori”, da destinare a chi comunque decide di non rispettare nemmeno gli obblighi tributari alleggeriti.