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Migranti, scontro Salvini-Asselborn. È stato un Salvini scatenato, quello che ieri s’è mosso sul palcoscenico di Vienna. Ha litigato con il collega lussemburghese e il maltese. Ha intavolato trattative con il tunisino. Ha fatto in tempo a ostentare l’unità d’intenti con gli austriaci. Ha snobbato il tedesco. Il ministro degli Esteri del Lussemburgo, Jean Asselborn, durante la conferenza si è scagliato più volte contro di lui. Ad accendere la scintilla, una dichiarazione del lussemburghese sulla necessità dell’immigrazione per contrastare l’invecchiamento della popolazione europea. Parole che non vanno giù al responsabile del Viminale. «Sentivo qualche collega prima di me – ha spiegato pacatamente Salvini nella conferenza – dire che abbiamo bisogno di immigrazione perché la popolazione europea invecchia, io ho una prospettiva completamente diversa. Penso di essere al governo e di essere pagato dai miei cittadini per vedere i giovani tornare a fare quei figli che facevano qualche anno fa, e non per espiantare il meglio dei giovani africani e rimpiazzare europei che per motivi economici non fanno più figli. Sono due visioni completamente diverse. Magari in Lussemburgo hanno questa esigenza, in Italia abbiamo l’esigenza di fare figli non di avere nuovi schiavi per soppiantare i figli che non facciamo più». «Penso che le sanzioni contro il popolo ed il governo ungherese – ha dichiarato poi Salvini – siano una follia, un atto politico di quell’Europa morente di sinistra, che non si rassegna al cambiamento. Abbiamo dato tutto il nostro sostegno al popolo ungherese e sono convinto che ci troveremo a governare l’Europa con Orbán». L’obiettivo è «cambiare l’Europa escludendo i socialisti».
Ad un mese dal crollo del ponte Morandi. Quelli del ponte Morandi arrivano tenendosi per mano come bambini, passano tra la fontana chiusa e la folla che già preme in piazza De Ferrari, e si avvicinano al palco delle autorità davanti alla Regione. Sono gli abitanti di via Fillak e via Porro, vissuti per decenni all’ombra del ponte e ora sfollati. Quelli che nei prossimi giorni, forse, avranno un’ora e mezza, non di più, per andare a riprendersi gli oggetti più cari dalle loro case condannate. Nella piazza De Ferrari, che ha sempre accompagnato gli svincoli della sua storia, ancora una volta Genova si rivela per quel che è davvero, un luogo con una personalità tutta sua che è poi un modo di essere. Questo raduno a un mese della tragedia serviva a ricordare le 43 vittime e anche a guardarsi in faccia, per uscire dal buio che si crea quando una comunità è obbligata a comprimere le emozioni perché prima bisogna scavare, e immaginarsi un nuovo futuro. Il sindaco, Marco Bucci, promette che Genova «ce la farà a tornare più bella di prima» dopo quello che definisce «il nostro Ground Zero». Il presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti, giura che la città riavrà il suo ponte. Applausi e incoraggiamenti a entrambi. Poi tocca al premier Giuseppe Conte. Sale sul palco per dire che non è venuto a mani vuote e mostra alla folla il testo del decreto per Genova. «Sono fogli bianchi? No, sono fogli pieni di fatti, di misure concrete. Non abbiamo litigato in Consiglio dei ministri». Promette che fra dieci giorni, con un proprio decreto, nominerà il commissario alla ricostruzione.
Politica estera
Verso le elezioni europee del 2019. «In giro non c’è Hitler, ma dei piccoli Mussolini forse sì». Questa volta l’attacco al governo del nostro Paese da parte del commissario europeo agli Affari economici Pierre Moscovici è particolarmente forte. E non si limita all’annoso problema del rigore dei conti ma assume una coloritura tutta politica. Tanto che molti, a Bruxelles, hanno individuato nell’ultima esternazione del socialista francese un primo atto di autocandidatura alla presidenza della Commissione Ue in quota Partito socialista europeo. E in effetti il nome di Moscovici è uno di quelli che si fa negli ambienti socialisti europei in vista delle elezioni peril rinnovo del Parlamento di Strasburgo del maggio prossimo. Per il 2019 i popolari, su spinta della Cancelliera Angela Merkel, hanno già individuato come “spitzenkandidaten” il tedesco Manfred Weber, attuale capogruppo del Ppe a Strasburgo. Intanto in Francia c’è aria di rivincita per Marine Le Pen. La leader del Front National sconfitta alle presidenziali dell’anno scorso tallona l’inquilino dell’Eliseo in vista delle elezioni europee. Se si votasse domani, scrive Le Figaro, lo scenario sarebbe disastroso per la maggioranza presidenziale, saldamente europeista. Dall’ultima rilevazione di giugno, il partito LREM (La République En Marche) è già sceso al 21,5% stando alla stima realizzata tra il 12 e il 13 settembre. Se a giugno La République En Marche oscillava tra il 23% (Ifop) e il 26% (Ipsos), appare evidente che il calo del presidente favorisce il recupero dei lepenisti, gli unici in grado di riproporre un cavallo di razza come Marine, capace non solo di attrarre consensi, ma di inserirsi pure nel quadro europeo.
Russiagate, Manafort si arrende al super procuratore Mueller. «Mi dichiaro colpevole». Nella Corte distrettuale di Washington, Paul Manafort, lobbista ed ex consigliere di Donald Trump, si rivolge formalmente al giudice Amy Berman. In realtà la sua è una resa, senza condizioni, al super procuratore Robert Mueller, titolare dell’inchiesta sul Russiagate. E’ un passaggio clamoroso, gonfio di insidie per il presidente degli Stati Uniti e per il suo clan. Alle 11 di ieri la Corte ha riconosciuto l’accordo sottoscritto da Manafort e dal pubblico ministero, cancellando il processo che sarebbe dovuto cominciare lunedì 24 settembre. Restano in piedi due dei sette capi d’accusa: «cospirazione contro gli Stati Uniti», per aver evaso circa 15 milioni di tasse e «ostruzione della giustizia», per aver provato a influenzare diversi testimoni. In cambio Manafort si impegna a «cooperare pienamente e in modo sincero con il Governo in tutte le circostanze ritenute necessarie». Nel concreto Manafort accetta di rispondere a qualsiasi domanda di Mueller e di fornire ogni elemento in suo possesso. La Casa Bianca ha risposto che non è un problema, perché il presidente non ha fatto nulla di male. Di sicuro c’è che se la collusione con la Russia per le elezioni del 2016 è avvenuta, l’ex manager potrà provarlo. Manafort era stato il capo della campagna fino ad agosto, assunto per l’abilità nel gestire le convention. Era stato licenziato quando il NewYorkTimes aveva rivelato che per anni era stato al servizio di Mosca, curando i suoi interessi in Ucraina. Per il momento è Mueller a segnare un punto. La sua strategia ha logorato, fino a spezzarla, la resistenza di Manafort.
Economia e finanza
Fuga dai BTp. Le parole possono creare danno. A ricordarlo è stato il presidente della Bce, Mario Draghi, lamentando l’eccesso di disinvoltura delle dichiarazioni politiche e i loro effetti sui mercati. Il riscontro arriva dai dati certificati da Bankitalia nell’analisi del fabbisogno e del debito pubblico italiano relativi al mese di giugno. Alla vigilia dell’estate lo stock di titoli di Stato in mano agli investitori stranieri è diminuito. Le cifre riassumono l’andamento dei mesi successivi alle elezioni del 4 marzo. Nel mese di giugno il totale di titoli di Stato detenuti da investitori esteri è risultato pari a 664,3 miliardi di euro, oltre 30 miliardi in meno rispetto ai 698,5 miliardi del mese precedente. Va aggiunto che nel mese di aprile lo stock in mani estere valeva 772,1 miliardi, mentre a marzo era pari a 712,6 miliardi. Un graduale raffreddamento, insomma, da parte di chi all’estero dovrebbe continuare a sottoscrivere le emissioni del Tesoro. Per effetto della diminuzione degli investitori esteri il dato aggiornato stima pari a circa il 28,3% la quota di titoli di Stato detenuti da soggetti stranieri. Secondo un report di UniCredit che analizza i dati Bankitalia, quello di giugno è sicuramente stato «uno dei maggiori deflussi mensili dalla crisi del 2011. Questo importo è stato anche il doppio rispetto alla variazione del saldo Target-2 di giugno (16 miliardi di euro)». A fronte delle vendite da parte di investitori non residenti, tra quali ci sono molti fondi con residenza estera che gestiscono risparmi degli italiani, si segnala un maggiore impegno delle banche nazionali (14 miliardi di euro) e da parte delle famiglie e delle società non finanziarie (13 miliardi di euro).
Manovra di bilancio. Una manovra che prova a guardare alle imprese, concentrando le risorse su pochi, specifici interventi. Almeno questa è l’intenzione del governo. Sulla base degli ultimi dossier il grosso dell’intervento per le famiglie verrebbe rimandato al 2020. A confermarlo è l’esito delle ultime riunioni, anche politiche che, complice la frenata della produzione industriale e le difficoltà patite dal mercato del lavoro, hanno fatto tornare in pista gli sgravi sulle assunzioni stabili. Al ministero del Lavoro sta prendendo corpo l’idea di far scattare in tutto il Paese, non solo al Sud, un incentivo per far aumentare i contratti a tempo indeterminato, comprese le conversioni dei rapporti a termine. L’intervento che si sta immaginando scatterebbe dal 2019 con un costo iniziale di circa un miliardo. Nelle ultime ore sta emergendo anche l’ipotesi di accantonare il progettato ritocco verso il basso della prima aliquota Irpef. Portarla dal 23 al 22 per cento si tradurrebbe in un alleggerimento di 150 euro l’anno per tutti i contribuenti al di sopra dei 15 mila euro di imponibile e in un risparmio via via minore per coloro che non raggiungono questa soglia. L’alternativa è concentrare tutte le risorse sull’estensione del regime forfettario per le partite Iva e sull’aliquota Ires agevolata. Potrebbe, inoltre, crescere la “dote” a disposizione dei partiti in vista della legge di Bilancio. E pare quindi destinato a lievitare anche l’importo complessivo della manovra che il governo deve approvare entro il 20 ottobre.