Politica Interna
Governo. Senza accordo politico, l’ipotesi del voto in ottobre. Si prepara alle consultazioni di domani, Sergio Mattarella. Purtroppo, se fino a qualche giorno fa sperava che fosse possibile far arrivare a dicembre un esecutivo «di tregua» con il sigillo del Quirinale, in modo da mettere in sicurezza la legge di Bilancio e sterilizzare l’aumento dell’Iva al 25%, adesso deve riconsiderare gli scenari. Perché le prospettive sono drasticamente cambiate, in peggio, e non lo inducono ad alcun ottimismo. La sua impressione è che i partiti siano ormai sordi a qualsiasi appello. Dunque, più che preoccupato, si sta rassegnando a un orizzonte destinato a chiudersi con lo scioglimento delle Camere in luglio e il voto in ottobre. Non a caso nessun partito sente come proprio, almeno proquota, il fallimento di non aver fatto decollare un governo normale, come sarebbe fisiologico. Per averne conferma basta rileggersi le dichiarazioni delle forze politiche, che al Quirinale aggiornano di ora in ora. Una babele da far perdere la testa. I 5 Stelle non ci stanno. La Lega a sua volta non ci sta se non ci sta M5S. Berlusconi sarebbe tentato di dare il proprio appoggio, ma ha paura a offrirsi senza la Lega, che lo accuserebbe di rompere il centrodestra. Il Pd vorrebbe mostrarsi aperto e aderire alla proposta-appello del presidente, però teme di restare con il cerino in mano. Se le risposte saranno ancora quelle degli ultimi 60 giorni, il presidente della Repubblica chiuderà davvero il portone dell’ex residenza dei papi e dei re: il nome lo deciderà in solitudine, così come i ministri e l’indirizzo politico dell’esecutivo. Ma Mattarella, nei colloqui di ieri con i consiglieri e con le parti, ha spiegato che cerca ancora una soluzione politica, una via d’uscita vera. Si aspetta un sussulto di responsabilità dai partiti, una decisione sul filo di lana
Di Maio riapre a Salvini pronto a cedere sul premier. È il famoso passo di lato di Di Maio, atteso da due mesi. Che matura però adesso, fuori tempo massimo con molta probabilità, nel corso delle telefonate che in queste 24 ore hanno riacceso il dialogo con Matteo Salvini. Il capo politico dei 5 stelle si dice ora pronto a sostenere anche il governo a termine lanciato due giorni fa dal leghista, concordando con lui un premier “terzo”, una figura anche esterna ai partiti, e un programma in pochi punti che potrebbe essere quello già abbozzato: stop all’aumento dell’Iva e ai tagli Ue, stretta sull’immigrazione e superamento della Fornero. Ma con una sola, inamovibile – e determinante – condizione: anche da questo governo di scopo, destinato a portare al voto nei primi del 2019, Silvio Berlusconi e i suoi dovrebbero restare fuori. Al massimo, concedere loro il sostegno esterno del quale si era già parlato nelle consultazioni condotte dalla presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati. L’ultima telefonata tra i due leader sembra sia avvenuta ieri sera, ma il “passo di lato” pur senza precedenti comunque non sblocca l’impasse. Punto e accapo: il Cavaliere ha già respinto anche questa seconda proposta per lui “indecente” e Salvini si rifiuta di rompere con Forza Italia. Intanto, il centrodestra resta unito per un «governo di scopo». E’ possibile che la risposta di Matteo Salvini, Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni alla proposta che domani farà Sergio Mattarella non sia data subito, ma che si riservino di valutarla. La formula offerta dal capo dello Stato, i tre ne sono consapevoli, metterà alla prova la solidità dell’alleanza. Perché sul «governo del presidente» le posizioni, tra segretario della Lega e capo di Forza Italia, sono diverse. Resistente il primo, che insiste sull’incarico se non a lui ad una figura indicata dal Carroccio ed è tentato dal voto subito; possibilista il secondo, verso larghe intese con un premier terzo che allontani le urne. Eppure, assicurano in casa azzurra, nessuno può e vuole «sfasciare tutto».
Politica Estera
Al voto in Libano: record di candidate. Le elezioni parlamentari che si tengono oggi in Libano rimarcano la crescente egemonia iraniana sulla regione dopo i recenti successi del regime di Bashar Assad in Siria contro i gruppi dell’opposizione. A essere in dubbio è soprattutto il ruolo del premier sunnita Saad Hariri, i cui legami diretti con l’Arabia Saudita sono stati messi ambiguamente in luce dalla farsa delle sue dimissioni, annunciate durante un viaggio a Riad lo scorso 4 novembre e poi ritirate subito dopo. Si torna alle urne per la prima volta dopo oltre nove anni. Gli elettori sono 3,6 milioni, dovranno scegliere tra gli oltre 500 candidati ai 128 seggi del parlamento. La lunga «pausa» elettorale indica i timori e le fragilità interni di un Paese che si percepisce come molto poco sovrano. Ma la maggiore novità delle elezioni di oggi in Libano è il record di candidature femminile. Sono tante le donne scese in politica, quasi tutte sostenute dai organizzazioni dei diritti civili, per sfidare i grandi poteri e le grandi dinastie. Nelle elezioni del 2009, le ultime, erano solo 11 le donne candidate. Al voto di oggi se ne sono registrate 114 (ne sono rimaste in corsa 88). Sono avvocati, medici, giornalisti, ingegneri, attivisti. Tutte decise a rimettere in piedi il Libano là dove la politica ha fallito: nella sanità, nell’istruzione, nei trasporti pubblici (quasi inesistenti), nell’elettricità, nella raccolta rifiuti. La loro speranza è che in Parlamento siano più numerose delle 4 deputate presenti oggi, legate peraltro a partiti tradizionali.
Macron, scontri per il primo anno all’Eliseo. In un periodo in cui Angela Merkel appare stanca, Theresa May disorientata e Donald Trump delirante, il presidente francese Emmanuel Macron irradia energia, carisma e acume. II suo viaggio negli Stati Uniti gli ha fruttato titoli d’apprezzamento in prima pagina: un articolo del’ Washington Post” sostiene che “il destino dell’alleanza occidentale sia nelle mani di Macron”, e “Politico” proclama che il presidente francese è “il nuovo leader del mondo libero”. Per fare da guida, però, bisogna che qualcuno ti segua. Fino a questo momento Macron risulta carente sotto questo aspetto. In un anno Macron ha perso 19 punti di popolarità in Francia. E domani Macron compie il suo primo anno all’Eliseo, ma i francesi ribelli, quelli che non ci stanno, i sindacalisti, i ferrotranvieri, gli studenti, i delusi e gli arrabbiati, la festa gliel’hanno voluta fare in anticipo, ieri: in 40 mila (gli organizzatori della festa dicono molti dipiù, almeno 160 mila) hanno sfilato dall’Opera alla Bastiglia, celebrando in una specie di Carnevale, con tanto di carri, il presidente Re, il presidente Zeus e il presidente dei Ricchi: «Tout le monde deteste le macronisme!» hanno cominciato a scandire in testa al corteso, dietro a un carro ricoperto di carta dorata su cui troneggiava una corona e un pupazzo di Macron Re. A fine pomeriggio Parigi ha tirato un sospiro di sollievo, col bilancio di un corteo sostanzialmente pacifico e «bon enfant», da bimbi buoni, come usano dire Oltralpe, anche se non sono mancate tensioni. Fermate, prima e durante la manifestazione 8 persone che avevano armi improprie, coltelli, bombolette spray.
Economia e Finanza
Cda Tim appeso al rebus maggioranza. Il riassetto Telecom è ben lungi dall’essere compiuto. Anzi, la vittoria assembleare del fondo Elliott, che ha prevalso su Vivendi, apre scenari inediti per un dossier che ora dovrà districarsi in un guazzabuglio giuridico senza facili vie d’uscita finanziarie. Il nuovo board è infatti per i due terzi espresso da una maggioranza che non può darsi per assodata, nel senso che i fondi per mestiere vanno e vengono. Cdp, che per missione è investitore stabile, non è rappresentata in cda. Vivendi è minoranza in consiglio, ma esprime l’ad Amos Genish che avrà tutte le deleghe esecutive e i poteri gestionali. E soprattutto il 24% dei francesi è in grado di mettere sempre alla prova la maggioranza “occasionale”. Col rischio del “concerto” comunque in agguato, accordi tra Vivendi e Cdp sono da escludere, se non con il ridimensionamento della prima quota, che però il titolare non ha alcun interesse a frazionare per non disperdere il controllo potenziale, con annesso premio di maggioranza. Nel frattempo, la richiesta del governo di Parigi alla Caisse des dépôts di votare la lista di Vivendi nell’assemblea Telecom, per difendere gli interessi francesi in terra straniera, potrebbe essere un caso isolato. Ma potrebbe anche costituire un increscioso precedente visti i fronti aperti e le partite in fieri. In corso, innanzitutto, c’è la trattativa tra Italia e Francia per definire un’alleanza nel naviglio militare, anche se non sfugge ai più la differenza sostanziale rispetto alla contesa su Telecom. Perché quello sulle tlc è prevalentemente uno scontro per il controllo della società, mentre nel confronto tra Fincantieri e Naval la posta in gioco è soprattutto industriale.