Politica interna
Nomine. La partita nomine restituisce la misura del contraddittorio tra le forze politiche. Maggioranza e opposizione trovano l’intesa sulla Rai, una condivisione che porta inoltre all’elezione dei presidenti di commissioni parlamentari strategiche come Vigilanza Rai e Copasir, oltre che alla scelta di Maurizio Gasparri alla guida della Giunta per le autorizzazioni di Palazzo Madama e a quella di Roberto Giachetti a capo della Giunta delle elezioni della Camera. All’interno della maggioranza non si trova invece l’accordo tra Lega e M5S sul vertice di Cassa depositi e prestiti. Ieri alle 12 Dario Scannapieco e Fabrizio Palermo erano pronti a distribuirsi le deleghe per guidare insieme la Cassa depositi e prestiti. Poi, sei ore dopo, l’assemblea degli azionisti avrebbe ratificato la loro nomina rispettivamente ad amministratore delegato e direttore generale. Invece è saltato tutto. Uno strappo clamoroso e fragoroso. Uno schiaffo al ministro Tria, è la versione di molti. Assembla rinviata a martedì. Tutto da rifare e uno scontro politico alla luce del sole. Su Scannapieco il Carrocio vede l’ombra di Mario Draghi, dei poteri internazionali, insomma tutto ciò che “il governo del cambiamento” si propone di combattere. «I soci di minoranza li rispettiamo, abbiamo sempre dialogato con loro. Ma alla fine decidono i maggiori azionisti di governo», spiega una fonte grillina. Anche il ministro del Tesoro rientra nella categoria dei soci di minoranza? Il sospetto è che faccia anche da parafulmine per le liti tra gli alleati. Conte cerca di minimizzare ma ammette: «Il problema non è se ci sono divergenze o meno. Sono nomine importanti perché Cdp è chiave per la politica nazionale ed ha un rilievo strategico quindi è ovvio che vogliamo meditare bene. Ci stiamo riflettendo per non sbagliare». Dicendo di no a Scannapieco Di Maio e Salvini intendono mandare un segnale a quel che rappresenta: a partire dall’influenza del presidente della Bce Draghi. E avvisare Tria che, come diceva nei colloqui riservati il ministro del Lavoro nei giorni dello scontro sul decreto dignità, «non può fare quello che vuole».
Legittima difesa. L’asse grillino Conte-Bonafede stoppa la corsa del leghista Salvini su una legittima difesa “senza se e senza ma”, proprio come la vorrebbero i commercianti di armi. All’insegna del messaggio – con cui il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede chiude un’altra giornata difficile sul fronte della contrapposizione giustizia-sicurezza – «via le zone d’ombra dalla norma attuale dando la possibilità al cittadino che si è difeso legittimamente di non subire tre gradi di giudizio». È tutto da vedere come un’alchimia giuridica di questo tipo sarà possibile, visto che i magistrati più avvertiti sostengono che oltre le regole attuali, datate 2006, non si può andare pena la messa a rischio dell’autonoma decisione dei giudici. Fino a ieri, sul tavolo, depositata fisicamente nelle commissioni Giustizia di Camera e Senato, c’era al primo posto la proposta della Lega, lo storico testo dell’attuale sottosegretario all’Interno Nicola Molteni. Fedele al principio “via la regola della proporzionalità tra difesa e offesa”. Ma ora il gioco cambia. Con le parole del premier Conte e con quelle di Bonafede. Salvini prova a smorzare: «Sono in piena sintonia con Bonafede, nessuna liberalizzazione delle anni, ma difendersi a casa proprio è un diritto sacrosanto. Il mio ultimo obiettivo è che le pistole vengano vendute in tabaccheria. II modello non è quello americano, semmai quello svizzero». «Non vogliamo incentivare la giustizia privata o l’uso delle armi, però siamo consapevoli che sull’applicazione si sono create delle incertezze. Molto spesso – dice il premier – è capitato di persone che hanno vissuto un calvario, tre gradi di giudizio per ottenere un’assoluzione. Sono vite che sono state mortificate. Occorre intervenire sulla regolamentazione senza stravolgere».
Politica estera
I sopravvissuti di Tham Luang. Nella sala allestita come un campo da calcio, tappeto verde e due piccole porte, siedono un centinaio di giornalisti. Sembra la presentazione di Cristiano Ronaldo e invece i calciatori sono 12, piccoli e thailandesi. Insieme all’allenatore sono pronti al ritorno in società con un giorno di anticipo dall’ospedale di Chiang Rai perché «hanno risposto bene alle cure». Dopo 17 giorni intrappolati nella grotta di Tham Luang, di cui 9 senza cibo, c’è un’ultima prova da superare prima di rientrare a casa per la prima volta dal 23 giugno: le domande dei cronisti che affollano — insieme ai parenti dei piccoli e al personale che li ha curati — la mega sala. Erano amici – hanno detto – ora sono famiglia. «Nessuno di loro voleva salvarsi per primo», ha detto il medico Park Lohauncol. Ma per psicologi e insegnanti ora inizia la fase più difficile del reinserimento. Cruciale sarà la decisione dei genitori di mandare tutti in un monastero buddhista, così da accumulare anche “meriti” con la meditazione e la preghiera da offrire in compensazione ai familiari del sub thailandese Saman Kumon morto nel soccorrerli. Fino a quando? Loro ripondono in coro: dipende dal loro allenatore Ekkapol Chantawong, detto Aek. «Finche lui resta restiamo anche noi». È Aek a parlare più di tutti: «Avevamo fatto l’allenamento, qualcuno di noi disse che non era mai stato in grotta: siamo tutti stati d’accordo di andare per un’ora, ma arrivati all’incrocio dei cunicoli non si poteva tornare indietro, l’acqua si era alzata di almeno due metri. Allora li ho radunati e ho teso una corda per attraversare insieme i passaggi col fango. II segnale era: se tiravo una volta si poteva proseguire, se tiravo due dovevamo fermarci e tornare indietro». «Bevevamo le gocce che scendevano dalle stalattiti», dice al microfono il giovane Tee. Due giorni sopportabili, poi i primi crolli. Il piccolo Titan, 11 anni, ammette: «Non avevo forze e sono svenuto. Ho cercato di non pensare al cibo o avrei avuto troppa fame». Adul Samon, centrocampista quattordicenne, è uno dei pochi multilingue e l’unico a rispondere in inglese ai primi soccorritori: «Sentivo delle voci dall’acqua – ha raccontato – sembrava un’illusione. Poi ho capito che era vero, li sentivo parlare. Pensavo che fossero thai. Ho chiesto a Mick di andare giù perché lui aveva la torcia. Presto, gli ho detto, vai a dare un’occhiata, sennò passano oltre».
Asse Italia-Egitto. La mossa «internazionale» era stata annunciata già la scorsa settimana a Innsbruck e, probabilmente, Matteo Salvini la fa anche per dare un segnale ai suoi interlocutori in Europa. Soprattutto, però, nel visitare il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi, annunciando al suo fianco una conferenza Europea e Nord Africana per «stabilizzare la Libia e combattere il terrorismo». «No ai balzi in avanti proposti dai francesi», dice invece Salvini che ha aperto la conferenza stampa di rientro spiegando che il primo argomento trattato con Al Sisi è stato Giulio Regeni, il ricercatore torturato e ucciso due anni fa al Cairo: «Lo dobbiamo alla sua famiglia e al popolo italiano». Soprattutto ora che l’Egitto, consegnando le immagini della metropolitana di Dokki dove era stato visto per l’ultima volta il ricercatore friulano, ha offerto segnali di disponibilità a cooperare con gli investigatori italiani. E, ancora una volta, il presidente egiziano, Abdel Fattah Al Sisi, conferma: «C’è la volontà e il grande desiderio di arrivare a risultati definitivi delle indagini sull’uccisione dello studente italiano Giulio Regeni e di scoprire i criminali per fare giustizia su questa vicenda». Una dichiarazione di intenti, da parte degli egiziani, in linea con quanto affermato anche recentemente. E con quanto ribadito a gran voce dopo il ritorno dell’ambasciatore Giampaolo Cantini, insediatosi al Cairo a metà settembre scorso in compagnia di un investigatore addetto ai rapporti con la procura egiziana. Gli investigatori del Ros, coordinati dal pubblico ministero Sergio Colaiocco, stanno procedendo sui diversi fronti aperti: quello dell’uccisione di Regeni e quello sul successivo depistaggio. Sul fronte terrorismo e immigrazione invece Salvini ha dichiarato in conferenza stampa a Roma: «In Libia c’è bisogno di cautela e rispetto. Con l’Egitto, che è un interlocutore privilegiato, abbiamo condiviso che la stabilizzazione del paese non debba passare per balzi in avanti come quelli previsti dai francesi. L’obiettivo è eleggere un governo e un parlamento che abbiano un unico esercito».
Economia e finanza
Decreto dignità. Si alza il livello dello scontro attorno al primo provvedimento importante del governo Conte – appena arrivato alla Camera per il suo iter di conversione in legge – proprio alla vigilia dell’audizione di oggi del presidente Inps Tito Boeri. Voluto dal vicepremier Di Maio per ridurre la precarietà, incappato nell’ormai famosa relazione tecnica bollinata dalla Ragioneria su dati Inps che lo inchioda agli 8 mila probabili posti persi, il decreto sembra ormai un ring. Marcella Panucci, direttore generale di Confindustria non usa giri di parole: «I potenziali effetti negativi sull’occupazione», dice in audizione a Montecitorio, possono andare «oltre quelli stimati». La replica del ministro del Lavoro, Luigi Di Maio,è arrivata da Facebook: «Confindustria dice che con il decreto dignità ci saranno meno posti di lavoro, sono gli stessi che gridavano alla catastrofe se avesse vinto il no al referendum poi sappiamo come è finita. Sappiamo come finirà anche in questo caso. Non possiamo più fidarci di chi cerca di fare terrorismo psicologico, per impedirci di cambiare. Dopo anni di precariato è evidente che queste politiche non hanno aiutato nessuno. Gli effetti del decreto dignità porteranno anche Confindustria a questa conclusione». Scendendo nei dettagli del provvedimento, secondo la Panucci bisogna chiarire «la natura non incrementale dell’aumento di 0,5 punti percentuali del contributo addizionale per ciascun rinnovo del contratto a tempo determinato, evitando così un incremento irragionevole e sproporzionato dei costi a carico del datore di lavoro». Inoltre vanno riviste le norme in materia di somministrazione. Il direttore generale di Confindustria ha anche sottolineato che il raddoppio dell’indennità in caso di licenziamenti illegittimi «rischia di scoraggiare le assunzioni a tempo indeterminato».
Investimenti sulle infrastrutture. Non è un problema di risorse: ci sono 150 miliardi stanziati nel bilando statale peri prossimi 15 anni e «già scontati dall’indebitamento netto: di questi 118 sono attivabili subito». È invece sempre più un problema di capacità di spendere: l’ultimo rapporto del governo dice che servono mediamente 15,7 anni per realizzare una grande infrastruttura di importo superiore ai 100 milioni. Il ministro dell’Economia, Giuseppe Tria, ha confermato ieri che il “cuore” e la priorità della sua politica per tirare fuori l’Italia dalle secche pericolose di questi mesi è far partire davvero gli investimenti dopo il crollo degli ultimi dieci anni. Ha aggiunto – introducendo un seminario della Ragioneria generale dello Stato sul partenariato pubblico-privato (PPP) – che bisogna creare le condizioni per favorire la partecipazione dei capitali privati nella realizzazione e gestione di infrastrutture. Uno dei problemi maggiori per l’economia dell’Eurozona infatti resta il basso tasso di crescita degli investimenti, in particolare modo quelli legati alle infrastrutture. La dinamica degli investimenti fissi lordi in Italia appare ancora più preoccupante. Tra il 2005 e il 2015 gli investimenti sono crollati del 26,3%, per un importo paria oltre 90 miliardi di euro. «Il partenariato pubblico-privato – ha detto – può costituire uno strumento significativo di rilando dell’economia e di attrazione dei capitali privati». Può aiutare a raggiungere il triplice obiettivo di migliorare l’efficienza dell’utilizzo dei fondi pubblici, selezionare le opere pubbliche con più alto tasso di rendimento, moltiplicare le opere che si possono portare fuori del bilancio pubblico. Proprio per questo ieri è stato presentato uno schema di contratto tipo per il PPP che sarà sottoposto a consultazione dopo l’estate e dovrebbe garantire un quadro di regole chiare per ridurre le aree di incertezza peri privati e contribuire a superare le obiezioni di Eurostat sul collocamento delle spese fuori dei biland pubblici.