Parla Antonio Napoli
Che fine hanno fatto quei ragazzi che avevano vent’anni o poco più quella sera del 23 novembre 1980?Che vite hanno vissuto? Quanto quella generazione è stata segnata da quella vicenda? Se lo domanda Antonio Napoli, editorialista de ilsussidiario.net in un articolo apparso il 24 novembre 2021, a quarantun anni dopo il sisma che sconvolse l’Irpinia. L’articolo si intitola “Dopo l’Irpinia / Il sogno tradito dellagenerazione 80 e i suoi errori”. Un pezzo concepito tra il ricordo del sisma, le politiche che sono state adottate per affrontarlo con la deriva assistenziale che le ha accompagnate e le responsabilità di una generazione che ha espresso la classe dirigente degli anni successivi alla tragedia. Ilsudonline lo ha intervistato .
A distanza di più di 40 anni, è possibile dare una lettura degli avvenimenti che seminarono tanta distruzione e ricostruire le scelte principali della classe dirigente che hanno segnato gli anni immediatamente successivi?
La tragedia, i morti, la distruzione, la solidarietà. E poi la ricostruzione, le leggi, gli strumenti “creativi” per fare presto e infine i soldi. Tanti soldi. Se penso a un film o a un romanzo, questi sarebbero i passaggi obbligati della narrazione.
Ora come allora, terremoto e pandemia: i soldi ci sono, non è così?
Parliamo di circa 54mila miliardi di lire, tradotti in euro oltre 27 miliardi dell’epoca, circa 60 miliardi di oggi. Senza che nulla cambiasse. Anzi, come sappiamo, il divario con la parte più forte del Paese è aumentato.
A chi vanno attribuite le responsabilità del Sud bloccato, anzi in regressione?
Penso che la “generazione dell’80” abbia avuto un peso decisivo sul governo del Mezzogiorno in questi ultimi quarant’anni. E possiamo dire che quella generazione corrisponde esattamente alla classe dirigente che ha poi governato il Mezzogiorno. Nelle amministrazioni pubbliche, nei mille gangli dello Stato, dalla magistratura alla sanità, dalle istituzioni culturali di ogni tipo all’economia.
Che insegnamento ha tratto dal terremotoquella generazione? Lei sembra ipotizzare che quella notte del novembre ’81 sia stata decisiva per molti di essi, segnando profondamente la storia del Mezzogiorno?
Come di fronte ad ogni evento traumatico, inaspettato, distruttivo – una guerra, un’epidemia, un cataclisma naturale – le sorti di una comunità dipendono dalla capacità di reagire e dalla voglia di ricostruire. Sono numerosi gli esempi in questo senso.
E nel caso del Dopo terremoto in Irpinia e Basilicata?
Il sogno della grande ricostruzione fu miseramente tradito.
Pochi anni prima il Friuli aveva subito un violento terremoto con danni gravissimi ma lo spirito di quella terra – e non solo dei giovani – spinse verso una veloce ricostruzione. Perché da noi le cose andarono così diversamente?
Penso che i giovani, che pure si erano distinti nei giorni immediatamente successivi al sisma per generosità e impegno, divennero presto oggetto di un’attenzione morbosa da parte del governo e dei partiti dominanti. Forse proprio perché preoccupati per le proteste e dalla forza che essi avevano esibito in quei giorni, prevalse l’idea di frenare tutta quella energia. Piuttosto che incanalarla e usarla per la rinascita si preferì assopirla, renderla innocua, depotenziarla.
Come?
Il primo provvedimento assunto a favore dei giovani delle zone terremotate fu quello dell’esonero dalla leva militare. Tutti coloro che dovevano presentarsi in caserma da quel novembre del 1980 in poi risultarono sollevati da tale compito. L’argomento usato per motivare il provvedimento fu quello che non si potevano sottrarre forze giovani alla ricostruzione e allontanare i figli maschi dalle famiglie. Come spesso accade in Italia, il provvedimento pensato per una fase di emergenza fu prorogato per quasi 20 anni, fino a consentire a più di un milione di giovani meridionali di evitare il servizio militare.
E poi?
Quasi contemporaneamente negli stessi anni furono aperte le porte – per la prima volta senza un concorso pubblico – delle amministrazioni locali e statali ai giovani delle liste della 285.
Vuole spiegare che cosa prevedeva?
La legge 285 del 1977 era stata una risposta alla crisi del collocamento e alla nascita delle liste di lotta dei disoccupati nella città di Napoli. Con quella legge di riforma si cercò di garantire il diritto al lavoro attraverso lo scorrere di una graduatoria pubblica e non per vie clientelari.
E quindi?
Violando lo spirito della legge migliaia di giovani diplomati e laureati entrarono nei ranghi della pubblica amministrazione con mansioni molto più basse rispetto ai loro titoli di studio. Si calcola che in pochi anni oltre 600mila giovani furono assunti grazie alla 285. Inutile dire che bastò aspettare lo svolgimento di qualche concorso interno per far valere alla stragrande maggioranza di essi il titolo di studio e conquistare ruoli apicali.
Evitato il servizio militare, entrarono senza concorso nella pubblica amministrazione, scalando dall’interno la gerarchia…
E assunsero il controllo di gran parte degli uffici dello Stato nel Mezzogiorno, diventando per tre decenni l’ossatura della nostra amministrazione pubblica.
Infine, dopo anni di onorato servizio, molti di essi hanno goduto dei vantaggi di “quota 100”, cioè dello scivolo pensionistico ideato dal governo nel 2018. La grande fuga dalla pubblica amministrazione di cui si parla oggi riguarda proprio questa generazione, che entrata nei primi anni 80 ha maturato età e anzianità per sfruttare l’opportunità che le è stata offerta.
Giusto in tempo per sottrarsi alla difficile prova della “nuova ricostruzione”, quella che si sta organizzando oggi dopo la pandemia con le risorse del Pnrr…
Non voglio apparire come chi scarica su quella generazione, che poi è la mia, le responsabilità del fallimento della ricostruzione e della cattiva politica che ha condannato il Mezzogiorno all’arretratezza. Ma alcune domande me le pongo.
Sentiamo
Quanto hanno inciso in negativo tutte quelle politiche di “vantaggio” per chi si considerava “svantaggiato”? Che peso può avere avuto sulle nuove generazioni quelle politiche di protezione prive di ogni riferimento al merito, alla capacità di adattamento, allo stimolo all’impresa? Quanto ha influito la sospensione di ogni sana competizione? E ancora: quanto è stato diseducativo rinunciare a misurarsi sul merito, ad essere premiato sulle performance e per le capacità dimostrate sul campo?
E ora provi a rispondere all’interrogativo…
Non posso che farlo con altre domande. Stiamo commettendo per caso gli stessi errori? Stiamo riempendo nuovamente in modo scriteriato la nostra amministrazione pubblica di giovani mediocri a cui interessa soltanto il posto fisso? Infine: stiamo gettando in questo momento le basi di una nuova sconfitta storica?