di Claudio d’Aquino
Sulle pagine napoletane di Repubblica, riferendosi alla campagna per le regionali in Campania, Marco Ciriello si è prodotto nel tentativo (riuscito) di schiudere una prospettiva al dibattito che langue al palo delle primarie. A chiare lettere ha sostenuto che, se fosse un politico che si candida a guidare la Campania, “sul Mediterraneo come destino ci farei su la mia campagna elettorale….”. Non le tasse, non i Fondi Ue non spesi, non il divario che si allarga, non le politiche industriali che latitano… No: il Mediterraneo.
E per non lasciar cadere lo spunto (la provocazione?) nel vuoto, proviamo a proseguire la riflessione dal punto in cui Ciriello l’ha lasciata il 6 febbraio scorso?
Come area di mercato in costante crescita il Mediterraneo c’è già. Anche in anni di crisi, i numeri della blu economy e dell’export, della portualità e della logistica, sono a segno positivo. Già oggi il mare nostro è attraversato da una nave su cinque fra quelle che solcano i mari del mondo. Il raddoppio del Canale di Suez non potrà che migliorare il rapporto. Altro che immigrati clandestini che sfidano la sorte sui barconi della disperazione. Tra fondi sovrani, crescita a due cifre del Pil di alcune – le prime – nazioni africane, le vie sempre attive per avere petrolio, gas, energia solare stabile e a buon mercato… Ce ne sarebbe già a sufficienza per avere, in Campania e nel Mezzogiorno, gli occhi fissi verso il Sud del Sud, invece che rivolti alla manna dai cieli del Nord, fra Roma e Bruxelles.
E l’Africa? Qui negli ultimi dieci anni la crescita dei consumi è stata superiore a quella di India o Brasile. Dove le città da 1 milione di abitanti sono nello stesso numero che in Europa. Un continente che ad oggi è più urbanizzato dell’India e poco meno della Cina. Dove, per essere più espliciti, i ritorni degli investimenti sono tra i più elevati del mondo dal 2007, mentre la crescita della produttività è generalizzata. Ecco la domanda che sorge spontanea: non sono queste le cose che il Pd dovrebbe studiare, su cui dovrebbe lavorare?
Non solo il Pd. Da un anno Stefano Caldoro, di cui rarissimi sono discorsi sopra le righe, ci illumina sulle magnifiche sorti e progressive che potrebbe imboccare il Mezzogiorno se, stando come stanno, si decidesse di abolire le Regioni e si formasse una macro regione sulla scorta dell’antico Impero fredericiano. Discorso non nuovo, perché risale ai vagiti della Lega Nord, nei primi anni Novanta, in un rimpallo tra la Fondazione Agnelli e Gianfranco Miglio. Discorso a vuoto però, perché se non si riesce ad abolire Province e Senato (e non si riesce a fare una legge elettorale), figurarsi quante lacrime e sudore e sangue comporterebbe abolire le Regioni. Con un esercito di consiglieri regionali, c’è da immaginare, pronto a marciare su Roma occupare manu militari Montecitorio.
Mai che Caldoro (e nessun altro a dire il vero) si sia prodotto viceversa in un percorso simile a quello imboccato altrove, negli ultimi anni, dall’Unione Baltica a venir giù. E senza voler andare troppo lontano, una macro regione europea è nata anche sotto l’arco alpino, con le adesioni dei governatori leghisti di Piemonte, Lombardia e Veneto, seduti allo stesso tavolo con Debora Serracchiani, che presiedeva fino a ieri l’altro il Friuli.
Ancora. Una macro regione europea è nata anche sul versante adriatico-ionico dell’Italia. Friuli-Venezia Giulia, Veneto, Emilia-Romagna, Marche, Abruzzo e Molise. E poi Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, assieme Slovenia, Croazia, Bosnia-Herzegovina, Serbia, Montenegro, Albania e Grecia. L’anno scorso il battesimo.
Le domande, si sa, sono come le ciliegie e una tira l’altra. Ma scusate, che cosa faceva Caldoro coi suoi colleghi del versante tirrenico mentre altrove….? Dormiva. Eppure Johannes Hahn, Commissario europeo per le Politiche Regionali, lo ha spiegato da tempo. Introdotte nel 2006 e operative dal 2007, le macro regioni europee sono state istituite per risolvere le problematiche incontrate dai Paesi nella cooperazione alle frontiere. Possono essere composte da due o più territori collocati in diversi Paesi e hanno il compito di affrontare problemi comuni: salute, politica dei trasporti, energia, economia interna, turismo e politiche occupazionali e sociali…
Ma Calabria, Sicilia, Basilicata e Campania, tanto per dire, non hanno problematiche di confine affini, volendo, con i Paesi dell’area Mena, quelli del partenariato euromediterraneo. Sul tema delle infrastrutture di rete, per esempio – trasporti, logistica, energia e portualità – non hanno niente da dirsi né da fare, con ottica che per una volta sia di sistema? Gioia Tauro, Salerno, Napoli (e semmai Civitavecchia, Livorno, Genova) non avrebbero giovamento dal dialogare coi porti della sponda Sud, che hanno incrementato la propria quota di mercato portuale dal 18% al 30% grazie all’avanzamento di strutture come Tanger Med e Port Said, mettendo in difficoltà gli hub di transhipment del Sud Italia?