Di Pasquale D’Aiuto, avvocato.
Non ne posso fare a meno. Ovunque mi trovi, se c’è un fotografo che espone i propri scatti in vetrina, io mi fermo un minuto e li osservo. Faccio come Diogene con la sua lanterna: cinico, lui cercava l’uomo; ottimista, io spero di trovarne uno che sappia scattare immagini con un qualche senso compiuto.
Peccato non ci riesca quasi mai. Cioè, non soltanto eseguono lavori orribili e – ciò che più conta – privi di qualsiasi originalità ma, addirittura, ne stampano gigantografie e le espongono, così provando a titillare il desiderio del passante: “…Ehi, tu! Sì, proprio tu, che devi cresimare tuo figlio: entra e replicherò questi capolavori per la sua festa! Sì, puoi avermi!”.
Peccato che le foto ti devastino: pose goffe di spose dal sorriso forzato nel vestito strettissimo (e dei coniugi col doppio mento adeguatamente valorizzato); tentativi falliti di profondità che manco mio nipote di anni tre col cellulare; bianchi- e-neri-vorrei-ma-non-posso, né nostalgici né potenti né evocativi; ritratti senza pietà di poveri bimbi, con espressioni naturali come una perla di plastica… insomma: il male.
Ma mica sono i soli? Per carità. Pensiamo a quelli che vengono pagati per tradurre in italiano i titoli dei film stranieri (ultimamente, Lercio ha scritto qualcosa di ingegnoso al riguardo). Propongo sempre questo esempio: “Eternal sunshine of the spotless mind”, film meraviglioso e visionario del 2004, sceneggiato da Charlie Kaufman, il cui titolo è un verso del poeta inglese del 18° secolo Alexander Pope, diventa “Se mi lasci ti cancello”. Che manco Boldi-De Sica!
Io, intanto, vorrei cancellare dalla faccia della Terra quel genio che ha immaginato che noi italiani (che abbiamo avuto Tasso e Leopardi, tanto per intenderci) non potessimo tollerare questo verso, col risultato di disertare i cinema… anzi, lui e gli altri super-dirigenti che, attorno ad un tavolo, avranno esclamato: “Se mi lasci ti cancello?! Wow, ottima idea! Così attireremo il pubblico di Boldi-De Sica, echissenefrega se dopo cinque minuti capiranno il trappolone; tanto, hanno già pagato il biglietto!” e giù grasse risate, mentre brindano a champagne e vanno in vacanza alle Bahamas, grazie al lauto e meritato stipendio da inventori di stupendi titoli di film.
Meritevoli di adeguata menzione anche i tabellonisti. Chiameremo così quelli che costruiscono le insegne dei negozi, ove è possibile leggere autentiche nefandezze. Certo, con una preferenza per ristoranti e pizzerie ed una predilezione amorevole per la violenza sulla lingua napoletana – basti pensare ai (tapini) apostrofi, dimenticati o piazzati a cazzo di cane, come diceva il buon Renè Ferretti di Boris.
Accostamenti cromatici improbabili, puntini sospensivi come se piovesse, cognomi buffi comicamente evidenziati (in rete ho trovato un’incomparabile “F.lli Loffa, impianti a gas, entrata dal retro”: sarò vera?), punteggiatura pioneristica ed una sola domanda: ma tu, che per lavoro stampi le insegne, una parolina, al cliente che ti paga, hai provato a dirla?! Ne dubito, e non per cattiveria: io temo, da sempre, l’ignoranza più che la malafede e le insegne costituiscono una significativa prova a sostegno della mia tesi.
Parenti dei tabellonisti sono i tizi addetti per i Comuni alla segnaletica stradale. A partire dalle targhe recanti i toponimi: mai – e dico mai – il minimo riferimento all’attività principale ed all’epoca (ad esempio, W.A. Mozart, compositore, genio, 1756-1791); fantasia zero (Garibaldi, Vittorio Emanuele, Cavour, Dante e le città italiane: ma un Sabin, che ha sconfitto, gratis, la polio?! Un Mendelssohn Bartholdy, che è, poco poco, l’inventore del concetto di musica classica?); drammatiche abbreviazioni (“Via S. Francesco d’A.”, giuro, è qui vicino); maiuscole e minuscole invertite e… su, fatevi un giro: mi darete ragione!
Ora, in quest’ultimo caso, trattandosi di dipendenti pubblici, sarebbe facile incoraggiare la vulgata sulla scarsa voglia di lavorare; però io non ci credo. Risparmiandovi altri esempi, secondo me, per tutti costoro, la ragione alla base di questo abbrutimento nell’espressione del pensiero, fiero vessillo dei nostri alfieri, è da ricercare in un autentico, eccellente menefreghismo, condito da manciate abbondanti di disprezzo per il lavoro e tutto ciò che rappresenta.
O, forse, più a monte, deve trattarsi di abissi d’inconsapevole infelicità, che si traducono in questa assurda, comica, triste, parossistica superficialità dilagante.
Ah: naturalmente, non per i fotografi incapaci. Poverini, quelli hanno solo sbagliato mestiere.