Circa un anno fa, aveva gli scatoloni pronti e le scatole piene, probabilmente in tutti i sensi. Giorgio Napolitano finally, con la Signora Clio, stavano per spostarsi a duecento metri dal Colle per rientrare nella loro casa a Via del Boschetto e, finalmente, potersi riposare terminando un impegnativo mandato presidenziale, da lì a pochi giorni. Invece l’insipienza di un ceto politico alla frutta, per dirla alla Renzi, fu incapace di eleggerne il successore. Gli stessi partiti che non erano stati capaci di abbozzare una legge elettorale, non trovarono la quadra. Una vera impasse istituzionale da far impallidire i migliori dilettanti allo sbaraglio della politica. Con gli occhi del mondo puntati addosso, tutti i partiti, M5S a parte, si recarono con il cappello in mano dal Presidente Napolitano, facendo atto di sottomissione purché accettasse un secondo mandato, autorizzandolo, di fatto, ad assumere prerogative presidenzialiste: la politica toccò il fondo. Resterà nella storia dell’Italia repubblicana il suo discoro di insediamento e la commuovente immagine di un uomo anziano a cui un Parlamento si aggrappa mentre un Paese disorientato sbanda. La condizione per accettare il secondo mandato era che i partiti avrebbero trovato la strada per un dialogo costruttivo e mettere in cantiere le riforme improrogabili di cui il Paese aveva bisogno: manco per niente.
Al Governo Monti da lì a poco si spezzò la bacchetta magica, più utile per disarcionare il Cavaliere che per fare le riforme e così toccò ad Enrico Letta tentare la ripartenza. Altro fiasco: delle riforme neanche a discuterne, con Grillo che ogni giorno guadagnava consensi nelle piazze e nei sondaggi, per non parlare di un PD che, annichilito, temporeggiava nel decidere quando far svolgere le primarie ed eleggere il candidato alla Segreteria del Partito. L’avanzata di M5S incalzava la vecchia guardia del PD, cosi il partito con il risultato delle primarie decise per il “tutto il potere a Renzi” acclamandolo Segretario. Quando il Segretario Matteo constatò che Enrico Letta, più che le riforme, avesse in mente di governare il semestre europeo della Presidenza Italiana e consolidare il suo equilibrio a Palazzo Chigi gestendo le 300 poltrone delle Aziende di Stato, allungando l’agonia di un Pd di cui ora Renzi era ormai il Segretario acclamato, chiese subito un cambio di passo e si fece, con lo stupore di tutti, cedere il passo. Da lì in poi una vera corsa, non più la maratona lettiana con il passo del keniota, ma una cinquemila metri con tanto di siepi da saltare.
Punto e a capo e Matteo incontra Berlusconi nella sede del PD dove e stringe l’accordo del Nazareno sulle riforme, rimettendo in gioco il Cavaliere, spiazzando l’ala giustizialista del suo Partito affetta da quella berlusconite, ben peggiore dello stesso berlusconismo. Il giovane Premier porta al Governo del Paese una squadra di donne, sindaci e di trentenni, tra cui Luca Lotti nel ruolo di Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio come un giovane Giulio Andreotti che con la sua nomina nel 1947 lasciò di stucco un’intera schiera di vecchi popolari che affollavano l’anticamera politica della nuova Italia, e anche Graziano Del Rio (nella foto) che con la sua esperienza all’ANCI può ben dire di avere il polso di tutto il paese. Chiama come portavoce il giornalista blogger, Filippo Sensi vero Ghost hashtag del Premier che costringe tutti i colleghi della carta stampata e tv a dormire con lo smartphone acceso sotto il cuscino in attesa del Tweet delle 6.30 della mattina. Matteo, ruba la scena dell’antipolitica a Grillo in poche settima e fa marciare la riforma del Senato e quella delle province, mette all’angolo il candidato al Colle di Beppe Grillo, Stefano Rodotà, che ancora oggi non si rassegna e spera che Napolitano lo nomini Vice Presidente del CSM, dà del conservatore al Presidente del Senato Grasso che vorrebbe per la seconda Camera una “riforma sì, avanti, ma piano”, candida cinque belle donne come capilista alle Europee, tutte con un passato prossimo in politica, ma tutt’altro che remoto, dichiara guerra senza quartiere all’alta burocrazia degli stipendi d’oro spiazzando i sindacati della Triplice che non riescono a smuovere il ceto impiegatizio pubblico contro il Premier neanche ricordando loro che i contratti degli statali sono bloccati dal 2010 e licenzia da Enel e Eni due pesi massimi come gli AD Fulvio Conti e Paolo Scaroni senza riciclarli con il vecchio giochino partitocratico dei quattro cantoni, fino al Def con cui le Banche, che non se la sono proprio passata male in questi ultimi anni, sono chiamate per la prima volta a fare la loro parte pagando una aliquota superiore di undici punti. La spending review passa da pratica esoterica degli scorsi tre anni ad un fatto e se si comincia dalle macchine blu, si passa a liquidare gli enti inutili, ma per Renzi “è solo l’antipasto” perché mette alla berlina i magistrati, quelli dell’avvocatura dello stato, i burocrati degli organi costituzionali che aggrappandosi alla Costituzione vorrebbero continuare ad attribuirsi in autonomia il loro fabbisogno e relativi stipendi a dispetto di chi lo stipendio non lo ha proprio o non riesce, con quello che ha, ad arrivare alla seconda settimana.
A questo punto siamo ad un passo dalle elezioni europee con le quali riuscirà a contenere Grillo avendogli prosciugato, in solo quattro mesi alla guida di Palazzo Chigi lo stagno degli alibi riformatrici e rivoluzionari in cui sguazzava al tempo dello streaming con Pierluigi Bersani. La campagna elettorale dovrà essere rivolta contro Grillo ma Berlusconi dovrà ottenere un risultato accettabile per continuare a sostenere le riforme e non solo. Dopo di che, forte di un risultato inimmaginabile fino a sei mesi fa Matteo Renzi si presenterà alla presidenza del semestre europeo per sorprendere ciò che resta della vecchia guardia del PD, nominando i commissari europei italiani ed il presidente dell’eurogruppo senza ricorrere ai riti della partitocrazia sempre pronta a premiare i bendisposti e un po’ meno i predisposti. Il punto di non ritorno per le riforme sarà, per il Segretario del Pd, la nomina del Presidente della Repubblica alla scadenza del Semestre Europeo come preannunciato da un visibilmente stanco Giorgio Napolitano che ha dichiarato la scorsa settimana alla stampa il suo ritiro entro l’anno. In questo caso, al posto della solita rosa, Amato, Rodotà, Grasso, Prodi, Letta zio, il Segretario del PD ha già fatto sapere che candiderà un politico e non un professore, un manager, un imprenditore, un magistrato o un giornalista. Proporrà per il Quirinale un politico svincolato dalle burocrazie e magistrature ma in sintonia con un Paese che ha voglia e crede nel cambiamento già in atto. Matteo Renzi pensa di candidare Graziano Del Rio per quel posto, e non Walter Veltroni, convinto che FI con Berlusconi farà convergere i suoi voti su di lui perché il Cavaliere sa che il tandem Renzi a Palazzo Chigi e Del Rio sul Colle sono la vera ipoteca sulle riforme dello Stato che a lui sono state impedite e per le quali appoggerà il giovane Premier. E’ impensabile per Renzi che un rappresentate dello satus quo possa sedere sul Colle dopo Napolitano se vorrà riformare la Costituzione e varare anche una riforma della giustizia. Il prossimo presidente non potrà essere troppo legato allo Statto apparato che ha ingessato il Paese negli ultimi 50 anni. L’esperienza della Presidenza Grasso al Senato la dice lunga. L’altolà dato da Renzi ai magistrati che vogliono le loro sentenze, giustamente, non discutibili, seppure a causa dell’inquinamento partitico di ogni tipo di magistratura qualcosa ci sarebbe da dire a riguardo, consente al Premier di rivendicare l’insindacabilità nel merito delle leggi del Parlamento che vorrebbero essere scritte invece dall’ANM. Certo poi ci sarebbe sempre la Corte Costituzionale per sindacarle ma, a maggior motivo, solo un Presidente della Repubblica come Graziano Del Rio potrebbe accompagnare un rinnovamento autentico della Consulta nominandone alcuni dei suoi membri fuori dal giro dei soliti noti, così come decidendo di presiedere di fatto il CSM, come previsto dalla Costituzione, contrariamente ad una prassi che ha delegittimato l’immagine dell’organo garante di indipendenza dei giudici trasformandolo in organo di autoassolvimento di una casta di Stato che non ha mai deliberato sanzioni ai magistrati dalla sua istituzione ad oggi.
Tutto ciò ha un senso soltanto se ci si convince che Silvio Berlusconi ha oggi l’unica velleità di vedere ciò che gli è stato impedito, riformare il Paese quindi, realizzato a dispetto di uno Stato Parallelo. (m.s.)
Fonte: AGIR