Una proposta «irricevibile», perchè «non rispetta gli impegni assunti su salario e inquadramento dei lavoratori». Il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, ieri ha fermato sul nascere l’avvio delle trattative con la compagine composta da ArcelorMittal (all’85%) e Marcegaglia (15%), che si è aggiudicata gli asset dell’Ilva in amministrazione straordinaria. «Abbiamo chiesto alla società, in avvio di tavolo, di confermaregli impegni presi sulla contrattazione occupazionale e sul costo medio di 50mila euro, e questo non è avvenuto – ha detto il ministro-. Senza queste conferme il tavolo non si può aprire: abbiamo richiamato gli azionisti agli impegni presi con il Governo». Ora non è più scontato che l’Ilva finisca nella mani di ArcelorMittal. E non solo perché per chiudere il cerchio è indispensabile l’intesa con i sindacati sul piano industriale. Dopo la rottura di ieri, infatti, il governo ha preso in esame anche l’ipotesi estrema: annullare la cessione, visto che l’offerta del vincitore sarebbe mutata, e valutare la disponibilità della cordata sconfitta, quella guidata dagli indiani di Jindal insieme alla Cassa depositi e prestiti, di aggiornare la propria offerta per prendersi gli impianti italiani di Taranto e Genova. L’Ilva è una tessera importante della struttura produttiva italiana e il nostro Pil. Rimetterla in carreggiata, dunque, rientra non solo nell’interesse delle aziende che sono subentrate nella gestione e i lavoratori coinvolti dai processi di riorganizzazione.