Alla domanda perché il Sud non si è sviluppato, economicamente e culturalmente, dopo la conquista piemontese, si può, sempre e soltanto, rispondere che la causa di tale arretratezza sia principalmente da rinvenire nel fatidico 1860? Su queste pagine la risposta è sempre stata sí. La madre del sottosviluppo meridionale si chiama mala unità. Lo abbiamo scritto e lo continuiamo a scrivere in tutte le salse e in ogni occasione.
Quello di cui non abbiamo scritto abbastanza riguarda una questione di fondo. Questione che cosí semplifico: si può affermare, senza inficiare minimamente la premessa di cui sopra, che ad eventi inevitabili per la loro potenza e per il loro progetto di sopraffazione e di conquista si siano sommati, nei decenni seguenti il 1860, comportamenti indolenti da parte di noi meridionali tali da condurci ad una inesorabile sudditanza? Si può dire che non siamo stati capaci né di opporci alla “colonizzazione”, né di assecondarla per trarne vantaggio? Si può dire che la società meridionale, mai avvezza a compromessi, proprio sulla questione delle questioni ha mediato una posizione pilatesca solitamente tradotta col solito “tiraccampismo”?
A sottolineare che spesso i cittadini non sono solo vittime ma anche complici del sistema, Sylos Labini ha sostenuto, anni fa, la tesi che l’arretratezza del Sud non è prevalentemente economica, ma soprattutto civile. A sostegno di questa tesi affermò che “sarebbe interessante mandare un pool di ricercatori nelle città del Sud per vedere qual è il reddito medio materiale. Si scoprirebbe che questo reddito non è molto inferiore a quello di città come Perugia e Siena, città civilissime e floride”. In sintesi Sylos Labini riteneva che è sbagliato guardare ai problemi del Sud esclusivamente dal versante economico. Anche Peter Schneider su Micromega (4/93) asseriva che “Quando un popolo si sceglie per decenni dei capi corrotti, quel popolo non può diventare automaticamente pulito mandando a casa o in galera i suoi ex capi. [..] Gli italiani (tanto meno i napoletani) non possono ingannare se stessi e pensare di essere immuni dalla corruzione”.
Per i cittadini dell’ex Regno delle Due Sicilie il processo di trasformazione della democrazia formale in democrazia sostanziale non è mai avvenuto, e, se non si è mai verificato, ciò è dovuto principalmente ad una classe politica che ha agito come ceto dominante anziché come classe dirigente. Questa casta di faccendieri, di affaristi, non solo non ha favorito lo sviluppo di regole civili e democratiche, ma ha addirittura ceduto il controllo del territorio alla malavita organizzata lasciando il popolo in balia delle “regole” della “onorata società”. In tal senso non possiamo stupirci quando quei pochi atti miranti al ripristino della legalità sono, in alcuni quartieri, fieramente contrastati dal furor di popolo. è questa la dimostrazione tangibile che un patto tacito, fra lo Stato e i poteri mafiosi locali, sottoscrive e avvalora la cessione di territorio dal controllo “ufficiale statale” ad un controllo “ufficioso e locale”. Ma a questa verità va aggiunta anche la responsabilità dei cittadini, la loro “cultura”, la loro educazione alle regole, perché, contrariamente a quanto si è portati a credere, l’efficienza, la legalità e tutti i valori su cui si fonda una civiltà non dipendono esclusivamente da altri ma riguardano ogni individuo. (…)
Questa è la malizia con cui siamo governati: al Sud sono concesse facilitazioni di tipo assistenzialistico tali da addormentare qualsiasi forma di protesta. In tal modo i meridionali, contenti di poter lucrare quelle condizioni assistenziali vantaggiose, accettano supinamente questa forma occulta di subalternità. La dimostrazione di questo sta nel fatto che, mentre al Nord è piú forte la diffidenza verso il potere centrale rispetto a quello locale (spinta al federalismo), al Sud la sfiducia verso il potere centrale si accompagna di pari passo a quella nutrita nei confronti dei governi locali.
(Due Sicilie, numero 4)