Istruzione, infrastrutture, le politiche industriali. E poi salute, previdenza, lavoro, energia, paesaggio, beni culturali, ambiente, rifiuti, territorio, acque, protezione civile. E finanche la gestione dei flussi migratori. Negli Accordi preliminari per l’autonomia differenziata tra Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e governo Gentiloni c’era (quasi) tutto. “Ma senza un rigo per spiegare – dicono Floriana Cerniglia e Gianfranco Viesti per la voce.info del 1° ottobre – perché e come la loro regionalizzazione porterebbe vantaggi a cittadini e imprese”. Per dirla meglio: perché quelle competenze e non altre? Con quali modalità? Con quali conseguenze? Perché a quella regione si e ad altre no? E soprattutto “che cosa succede alle politiche nazionali dopo il decentramento verso alcuni e non altri?”.
E tutto questo senza valutare il non secondario aspetto del finanziamento per la gestione delle funzioni richieste che, sempre secondo gli autori dell’articolo citato, appaiono disegnati “apposta a vantaggio delle Regioni richiedenti”. Rammentando, infine, che dopo otto anni il decreto 68 è ancora in una fase di stallo “perché per molte funzioni regionali (si pensi al caso dell’assistenza) manca ancora la definizione sia dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) sia dei fabbisogni standard”…
Insomma più passa il tempo più si rafforza la sensazione non piacevole che Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna ci abbiano provato. Come gli inquilini del terzo piano che si riuniscono per fatti loro e decidono (quasi) tutto – i lavori straordinari, l’ascensore e persino i posti auto nel cortile – in barba al condominio, pur avendo appena un terzo dei millesimi.
Claudio d’Aquino