di Luca Maimone

 

Su Napoli, la città antica e sempre giovane allo stesso tempo, l’incubo spettrale di un nuovo lockdown, anche se più morbido, si aggira e sta tormentando i pensieri dei suoi vivaci cittadini, sempre pronti, nonostante le varie ataviche problematiche che li rincorrono e rincorrono la città tutta, a scrollarsi di dosso con un gesto o un sorriso il problema che si è appena presentato. Le paure questa volta non toccano solamente le tematiche legate alla salute o all’economia, già in questa città sempre fragili, ma il timore riguarda soprattutto, per la peculiare caratteristica dei napoletani di vivere l’esterno come estensione della propria casa, di perdere la loro libertà di movimento e di respiro. Napoli è una città estroversa: il caffè al bar o la chiacchiera in piazza per i napoletani sono consuetudini così familiari che questi luoghi sono vissuti come ampliamenti della propria cucina o del proprio soggiorno.

La strada infatti è il corridoio più lungo della propria abitazione. A Napoli i confini, tra interno e esterno, tra privato e pubblico, sono così sfumati che si confondono e si perdono in un flusso continuo.  Con gran sensibilità e colpo di genio il filosofo tedesco Walter Benjamin, che la visitò nel 1924 e le dedicò un bellissimo scritto, definì Napoli la “città porosa”, la costruzione delle sue abitazioni su pietra di tufo diventa elemento allo stesso tempo fisico e metafisico, specialissimo indicatore del carattere della città. Benjamin infatti scrisse: “come la pietra, così anche l’architettura di Napoli è porosa. Costruzione e azione si permeano in un susseguirsi di cortili, portici e scaloni. Tutto è fatto per custodire la scena in cui costellazioni sempre nuove, sino ad allora imprevedibili, possano accadere. E poi aggiunse: “Poiché nulla è concluso e fatto per sempre, in angoli come questi si riconosce a malapena fra quel che deve essere ancora costruito e quel che già è caduto in rovina. Porosità significa non solo, o non tanto, l’indolenza meridionale nell’operare, bensì piuttosto, e soprattutto, l’eterna passione per l’improvvisare.

All’improvvisazione deve essere in ogni modo riservato lo spazio, deve essere sempre garantita l’occasione. I fabbricati sono usati come teatri popolari permanenti, le cui parti si dividono in una miriade simultanea di palchi animati: balconi, androni, pianerottoli, finestre, scaloni, gli stessi tetti – tutto è, insieme, palcoscenico e platea. Anche l’esistenza più miserabile è sovrana nell’ambigua, oscura consapevolezza di far parte, con tutto il suo degrado, di una di quelle irripetibili scene di vita di strada napoletana; e di poter godere, nel pieno della sua povertà, dell’ozio necessario per il grandioso scenario”.

Mai parole furono più evocative e allo stesso tempo così precise nel cogliere la realtà e la profondità della città. Di questo infatti i napoletani hanno maggior terrore in questo momento: di perdere l’occasione, così immediata per loro, di esser teatro e platea, di essere protagonisti e spettatori in un gioco libero e infinito di interscambio di ruoli e prospettive. Napoli, città indolente e allo stesso tempo così carica di energia, teme per la sua salute, ma sa anche che i suoi anticorpi sono fortissimi, tanto hanno patito e combattuto nel corso dei secoli; lo sgomento vero è quello di non poter recitare la sua quotidiana poesia urbana e naturale, di non poter emanare, tra i suoi vicoli e piazze, la sua musica popolare e mistica che, come brezza marina, soffia e diffonde ovunque suoni e odori così unici, da commuovere ancora chi ci vive da una vita.