Antonio De Robbio
Oggi nella sala consiliare Silvia Ruotolo si è tenuto un incontro sul tema della Shoah, promosso dal presidente della V municipalità di Napoli, Mario Coppeto, ed organizzato dalla docente Ersilia Di Palo. Ad aprire il dibattito è proprio il presidente, che nel suo discorso ricorda il ragazzino Sergio De Simone, originario del Vomero, fatto prigioniero e mai più ritornato a casa. Il luogo stesso di questa giornata non è casuale, la sala è dedicata ad un’innocente, vittima in questo caso della camorra, a voler simboleggiare l’universalità del male carnefice e dell’innocenza spezzata. Per i settant’anni dall’apertura dei cancelli di Auschwitz si è voluta organizzare quest’intensa giornata, fatta di incontri con esponenti delle istituzioni, della cultura e della testimonianza. Diverse sfumature della condizione ebraica emergono dalle interviste rilasciate durante la kermesse.
LE INTERVISTE
Innanzitutto si è discusso con Ersilia Di Palo, docente organizzatrice dell’evento, del ruolo della scuola per la sensibilizzazione delle coscienze, dalle scuole elementari a quelle superiori. Il suo e di tanti altri docenti è il progetto scuola strumento di pace, che mira a -trasformare la didattica in messaggera di pace-. Ci spiega le difficoltà di avvicinare su più larga scala i ragazzi alle tematiche della Shoah, spesso più interessati ad argomenti frivoli, all’inadeguatezza dei programmi scolastici, troppo rigidi e poco incentrati sulla questione, che è poi la grande problematica del nostro secolo, l’integrazione. -I ragazzi più informati,- continua la professoressa, -sono quelli più sensibili, mentre quelli che lo sono meno diventano apatici ed indifferenti-. La colpa va imputata anche ad una visione troppo tradizionale della scuola, incentrata su vecchi programmi scolastici, poco mirante alla formazione di coscienze critiche. La scuola, dunque, come primo vaccino contro l’indifferenza, la superficialità e ignoranza che sono alla base della nascita del male.
In rappresentanza della popolazione ebraica a Napoli, abbiamo il racconto di Angela Yael, la quale ci delinea una situazione sconcertante. Ancora oggi, dopo settant’anni dalla fine dell’olocausto, ci sono sacche di antisemitismo persistenti, anche nella pur tollerante Partenope. Le prime parole di Yael sono di rabbia, di dolore e di stanchezza allo stesso tempo. Dolore -per le persecuzioni tutt’ora subite-, per il disagio sociale che devono sopportare quotidianamente. Ci racconta, per esempio, di minacce, lettere minatorie e soprusi a causa dell’organizzazione di una giornata della memoria nella scuola del figlio; della velata opposizione di alcune istituzioni, che non apertamente, ma di sbieco, si mostrano poco concilianti. Infine, il disagio del figlioletto A., che ogni giorno subisce discriminazioni razziste a causa del suo credo ebraico. Usa parole forti, quando accusa certe istituzioni di ipocrisia, che ricordano ogni anno solo il 27 gennaio la persecuzione degli ebrei, ma nel quotidiano tollera o non si oppone con fermezza a preoccupanti forme di intolleranza razziale.
A questa situazione ben risponde l’odierna giornata dedicata alla memoria e alla testimonianza, come ci spiega la consigliera comunale Cinzia Del Giudice, la quale con fermezza ribadisce l’importanza del ruolo istituzionale all’interno di una società civile multietnica e dalle mille complessità. -Questa giornata- ci spiega la consigliera,- è stata istituita tre anni fa, ed ogni anno è premura della municipalità mettere a confronto personalità di alto spicco istituzionale e culturale col tema dell’antisemitismo e della tolleranza. Ci ricorda che, a differenza di molte altre città, Napoli è sempre stata molto aperta e disponibile nei confronti degli ebrei, con diversi esempi di sabotaggio delle leggi razziali.
Molto toccante l’intervento di un testimone delle leggi razziali, Tullio Foà, che all’epoca del varo di tali discriminazioni aveva cinque anni e mezzo. Ci racconta un episodio di particolare intensità. Quando formarono la classe di soli ebrei, nella scuola Vanvitelli di Napoli, obbligatoriamente i bambini dovevano entrare nell’edificio scolastico attraverso una piccola entrata secondaria, quella principale era riservata alla razza italica. In oltre, dovevano entrare un quarto d’ora prima ed uscire un quarto d’ora dopo gli altri, sempre dal cancelletto secondario. Non c’era il filo spinato lì, ma c’era una cortina di diffidenza, di diversità tra i bambini stessi. Anni dopo, quando Napoli si ribellò al dominio nazifascista, Tullio ci racconta il momento della liberazione. Erano tutti in classe, ma all’uscita da scuola, finalmente, poterono varcare la soglia del cancello principale, da bambini liberi.
Non poteva mancare l’arte in questa giornata, in primis con la poetessa Clotilde Punzo, che ha letto alcune sue poesie sulla Shoah. Anche se il grande filosofo Adorno disse che dopo Auschwitz non era più possibile scrivere poesie, proprio questa forma d’arte riesce, saltando i legami razionali del pensiero, ad immergere direttamente le coscienze del lettore nell’inferno dei lager, permettendo una conoscenza più immediata e profonda. In una delle sue composizioni più belle, la scrittrice immagina il tentativo di un prigioniero di oltrepassare il filo spinato dei cancelli del campo di concentramento, molto simile al filo spinato che, prima della deportazione, aveva srotolato lungo la sua comoda villetta, a dividerla dal vicinato. La morte del suo compagno sarà anche la sua, ma, giura, se mai riuscirà ad uscirne vivo, sradicherà per sempre quel filo spinato dalla sua casa.
La giornata si chiude con la struggente musica di violino e violoncello di Yael e di suo figlio, i quali suonano musiche tradizionali ebraiche. Il primo brano è l’inno di Israele, La speranza, mentre, dopo la lettura della preghiera cantata dai prigionieri prima di entrare nella camera a gas, l’ultimo è Schindler’s List, assunto a simbolo musicale dell’olocausto.