di Salvatore Sansone
Quanto è antica la Camorra? La domanda si è riproposta, in tutta la sua drammaticità, negli ultimi mesi a Napoli a margine tanto della recrudescenza della guerra tra clan quanto della polemica sorta tra il sindaco di Napoli De Magistris e la presidente della Commissione Antimafia Rosi Bindi sul carattere costitutivo del fenomeno camorristico a Napoli. Oggi lo storico Amedeo Feniello col suo nuovo libro Napoli 1343 dal sottotitolo intrigante Le radici medievali di una mentalità criminale ci riporta ad un tempo lontanissimo – al medioevo appunto – epoca in cui, secondo lui, si sarebbe formata non tanto la Camorra ma la mentalità che la sostiene, fondata su alcuni elementi di forza (la ripartizione tra clan, il controllo del territorio, l’uso della violenza ecc.) che sorgono e si formano nel corso di uno dei periodi più complessi della storia napoletana, in quei 120 anni che passano tra la fine della stagione indipendente del Ducato autonomo (1142) e la conquista angioina.
L’originalità del volume, oltre al tema trattato in tutti i suoi più articolati aspetti, sta anche nella struttura narrativa. Che parte da due episodi. Uno radicato nell’oggi, nella nostra attualità. L’altro nel medioevo, nel 1343, anno che dà il titolo al volume. Nel gennaio 2005, nel corso di un raid camorristico, tre giovani vengono assassinati a Casavatore, proprio davanti alla scuola dove lo stesso Feniello lavorava. Nel novembre 1343, nel Golfo di Napoli, nella rada di Baia, di notte una nave genovese carica di merci viene assalita, l’equipaggio catturato, il capitano barbaramente trucidato.
Cosa lega questi due fatti cronaca così lontani nel tempo? Secondo Feniello un filo sottile che risale lungo i secoli. E, sulle tracce di moventi, mandanti ed esecutori della notte del novembre 1343, l’autore ci conduce per mano nelle vicende medievali di Napoli: una città per tanti versi già allora affascinante e inafferrabile, in cui si succedono civiltà e tradizioni diverse, a partire da quella bizantina fino alla dominazione angioina. Con una realtà sociale peculiare, dove a comandare davvero, più che lo Stato, sono le famiglie e i clan dei cosiddetti «seggi», tanto più forti quanto più debole si dimostra il potere centrale, pronti a farsi carico dei problemi della cittadinanza e gelosi della propria autonomia. Capaci di strenue resistenze o di compromessi con le dinastie che si susseguono, le quali ad una ad una, passano, mentre loro, le famiglie della nobiltà cittadina, restano e resistono. Con l’esprimere o la propria supremazia anche attraverso la forza dei simboli, come in occasione della processione del Corpus Domini, scandita da gerarchie, omaggi e riverenze che ricordano episodi dei nostri giorni.
Uno squarcio di Medioevo, dove è già possibile riconoscere molti elementi che caratterizzano la mentalità della malavita organizzata contemporanea: con i suoi clan familiari, impregnati di senso di appartenenza e di una pratica quotidiana della violenza adoperata come unico strumento di risoluzione dei conflitti. In un clima in cui senso delle gerarchie familiari e controllo totale del territorio marcano l’agire individuale, dove ogni nesso tra il singolo e lo Stato viene garantito dai clan. Con un aspetto decisivo: la capacità di queste famiglie di trasformarsi in ceto dirigente e di inserirsi nei nuclei delle istituzioni già nel corso del medioevo. In un groviglio tra interessi privati e pratica di governo inestricabile.
Insomma, un appassionante e documentatissimo racconto storico che scorre tra i vicoli di una città che fu una delle grandi capitali dell’Occidente medievale, dalle tante luci e dalle tante ombre. Da cui emerge, come lo stesso autore sottolinea più volte, una struttura di lungo periodo, fatta di usi, consuetudini e tradizioni che attraversano le epoche. Irrobustite non di rado dall’assenza o dall’inefficienza dello Stato, e da quella sfiducia dei cittadini che induce spesso a rivolgersi, ieri come oggi, a chi gestisce realmente il territorio che già si avverte fortissima in epoca angioina, in modo particolare nel corso del Trecento. Tanto da plasmare un contesto sociale dove prevale l’idea che la res publica non sia di tutti ma solo «cosa nostra», dei clan, delle famiglie, degli organismi che si sostituiscono allo Stato e, spesso, si fanno Stato.
Un libro intrigante che, certamente, non mancherà di suscitare polemiche, ma che rimanda una storia medievale napoletana in controluce, osservata da un orizzonte certamente originale, come originale è stata la nostra vicenda cittadina.