Ha spiazzato tutti Mario Draghi, il super-banchiere della Bce, tagliando di un quarto di punto il tasso di interesse e portandolo al minimo storico dello 0,25%. Costo del denaro più basso significa mutui meno pesanti per le famiglie e credito più abbordabile per le imprese. Una mossa che potrebbe (o dovrebbe) avere effetti positivi anche sul versante della crescita. Ma sarebbe davvero fuori luogo cantare vittoria o parlare di una svolta. Dietro la decisione di Francoforte c’è tutto il paradosso dell’area del mondo dove la moneta è più forte e l’economia più debole. Tanto che, a preoccupare Draghi, prima ancora della tenuta dell’euro, è soprattutto il rischio di una deflazione, ovvero di un calo generalizzato dei prezzi: situazione speculare ma non meno grave rispetto a quella che, da quando sono nate, le banche centrali hanno dovuto combattere, quella cioè dell’inflazione. Unica eccezione recente, il Giappone fra il 2000 e il 2006. In entrambi i casi sono fenomeni che mettono a rischio la stabilità monetaria e, con essa, il destino dell’economia. La decisione di Draghi, da questo punto di vista, rispetta in pieno il mandato della Bce, che è quello appunto di difendere con le unghie e con i denti la stabilità e la sopravvivenza dell’euro.
Euro, le armi della Bce e quelle del mercato
Detto questo, il problema europeo resta di natura essenzialmente politico. Per rimettere in sesto il vecchio continente, insomma, non bastano le armi che ha a disposizione un banchiere potente come Draghi. Ma occorre che Eurolandia, da invenzione monetaria, diventi un soggetto politico in grado di governare i processi economici. Un percorso che, dall’inizio della recessione ad oggi, non è mai stato neanche tentato ma solo ipocritamente annunciato. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Sette Paesi, compreso Olanda e Finlandia, tradizionali alleati della Germania sulla trincea del rigore, sono in recessione. In altri sei il debito pubblico ha superato il 100% del Pil, lo stesso livello registrato in Italia nel 2006. I prezzi mostrano rallentamenti un po’ dovunque, a causa del crollo dei consumi. Mentre gli investimenti sono letteralmente crollati, con una diminuzione media del 19% che arriva a sfiorare il 27% in Italia. Eppure, di fronte a questo scenario, l’Europa continua ad accumulare un surplus commerciale monstre, con la cifra record di 350 miliardi, concentrato quasi al 50% in Germania. Tradotto in sintesi, l’Europa è un’area che ha smesso di credere in se stessa, non investe sul proprio futuro e limita al massimo i consumi, frenati anche dall’alto livello della pressione fiscale.
Crisi economica, il rigore non basta
Un quadro che, probabilmente, è l’esatta conseguenza di una politica del rigore sbagliata più che della grande crisi che ha colpito tutte le economie mondiali. Lo stesso taglio dei tassi deciso dalla Bce avrà effetti diseguali nei vari paesi di Eurolandia, che si scrutano con sospetto e preoccupazione, lasciando ampi margini di manovra per chi specula sugli spread. In Italia, poi, tutto questo è reso ancora più pesante dalla cronica incertezza politica e dai ritardi accumulati dal sistema Paese sulla strada della competitività.
La mossa di Draghi, in conclusione, difficilmente potrà tradursi in una svolta se l’Europa non creerà una regia unitaria e politicamente forte in grado di attuare quelle riforme strutturali necessarie per la crescita. Senza questo salto di qualità il destino dell’euro continuerà ad essere legato a quello che ormai sta diventando solo un feticcio: la soglia del 3% nel rapporto fra deficit e Pil.
Antonio Troise
fonte: L’Arena