Il duello sui MiniBot e i temi in agenda. La Stampa: c’è freddezza nei confronti del premier che è disposto a cedere molto pur di non finire con la testa sul ceppo della procedura di infrazione. Il problema rimane il complicato rapporto con l’Europa e il controverso strumento dei minibot su cui la Lega insiste e che invece il presidente della Bce Mario Draghi ha già sonoramente bocciato («o sono denaro illegale o sono debito»). Non piacciono nemmeno al presidente della Confindustria Vincenzo Boccia, ma Salvini afferma che sarebbero graditi agli italiani perchè servirebbero a pagare i debiti della Pubblica amministrazione. Ieri, dopo che l’agenzia di rating Moody’s ha avvertito che parlare dei minibot mina la credibilità del Paese agli occhi degli investitori internazionali perché evoca l’uscita dall’euro, è stato il Carroccio a continuare a discuterne come nulla fosse. «Sono una possibilità – insiste Salvini – non sono moneta. Le monete alternative le usiamo al Monopoli. E poi piacciono agli italiani». Persino il sottosegretario Giancarlo Giorgetti, considerato l’anima più moderata e istituzionale del partito, ieri ha ammesso che i minibot «sono una proposta per accelerare i pagamenti, una delle possibilità, una delle soluzioni». Una posizione su cui anche i 5S non sono contrari. La Stampa intervista sul tema Claudio Borghi: «So bene che è vietato introdurre monete parallele, sarebbe un disastro. La mia proposta è quella di introdurre uno strumento esigibile per il pagamento di debiti della pubblica amministrazione. Dunque non sarebbe nuovo debito, ma la cartolarizzazione di crediti esistenti. Né più né meno quel che aveva progettato Corrado Passera quando fu ministro del governo Monti». Presenterete un progetto di legge? Borghi: «Certo, sta nel contratto di governo. Lo faremo con la legge di bilancio, se riusciremo a realizzare la flat tax eliminando deduzioni e detrazioni, e riconoscendo i crediti di imposta che verranno meno attraverso i mini-bot». Il Sole 24 Ore: il negoziato con la Commissione Ue è soltanto all’inizio, ma deve viaggiare in tempi rapidi. E, prima di tutto, ha bisogno di trovare una linea comune a Roma. Lunedì sera o al massimo martedì mattina, comunque prima del Consiglio dei ministri già convocato alle 15.30 dell’11 giugno, è atteso il vertice tra il premier Giuseppe Conte e i suoi vice Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Vertice decisivo, trapela da Palazzo Chigi, perché Conte sciolga la riserva sulle sue dimissioni ottenendo un mandato pieno a trattare a Bruxelles. E perché si arrivi a una sintesi politica delle diverse priorità. Lo sforzo da compiere non è piccolo. Perché oggi non c’è ancora un’agenda comune nell’Esecutivo, diviso tra una linea istituzionale incarnata da Conte e dal ministro dell’Economia Giovanni Tria e dichiarazioni più battagliere da parte di Di Maio e Salvini, che non a caso evoca un «tagliando al contratto». Il risultato è che Lega e M5S occupano la scena con flat tax, Tav, autonomia e sicurezza (Lega), salario minimo e aiuti alle famiglie (M5S). Senza trascurare i mini-Bot, che sono un dito nell’occhio alla Ue.
Politica interna
Governo, rimpasto in vista. Il Sole 24 Ore: il rimpasto è ormai alle porte. Un vertice a tre – Conte, Salvini, Di Maio – si terrà forse già lunedì, prima del Consiglio dei ministri del giorno dopo che varerà il decreto sicurezza bis. «Non mi interessano le poltrone ma se ci fosse la necessità di una squadra più coesa e di una revisione del contratto io sono disponibile», anticipa il vicepremier della Lega. Salvini si guarda bene dall’entrare nel dettaglio ma dà tra i probabili partenti la pentastellata ministra della Sanità Giulia Grillo e il suo collega di partito alle Infrastrutture, Danilo Toninelli. La prima casella da riempire però è quella lasciata vacante da Paolo Savona: «Chiederò al Presidente del Consiglio che il ministro delle Politiche comunitarie venga nominato il prima possibile», è l’input inviato ieri dal leader della Lega a Giuseppe Conte. Non è una rivendicazione, aggiunge, «non mi interessa il colore», giallo o verde per intendersi, ma si dà per scontato che a sedere sulla poltrona abbandonata dall’attuale presidente Consob sarà un esponente del Carroccio. Che potrà così inserirsi subito nel confronto europeo sulla possibile procedura d’infrazione all’Italia da parte di Bruxelles. Il nome più gettonato è quello dell’attuale sottosegretario alla Farnesina Guglielmo Picchi. Ma non è da escludere anche un trasferimento del titolare della Famiglia, Lorenzo Fontana. Repubblica: due in particolare i nomi sui quali si sta ragionando. Il primo è quello di Guglielmo Picchi, sottosegretario agli Esteri, che però ha un pessimo rapporto col suo “capo”, l’inquilino della Farnesina Enzo Moavero Milanesi, il che potrebbe rappresentare un elemento di disturbo agli occhi di Mattarella. L’altro papabile, al momento il più accreditato, è il ministro della Famiglia Lorenzo Fontana: leghista della prima ora e “fratello” del leader, libererebbe in prospettiva una poltrona utile a compensare i 5 Stelle dello “scippo” di Infrastrutture e Salute. A dispetto dell’intervento di Beppe Grillo — a cui l’omonima ministra ha telefonato per farsi difendere, incassando ieri il pubblico elogio del garante sul suo blog — la Sanità è infatti finita nel mirino del Carroccio. Di Maio, se vuole restare al governo, non può che cederla, insieme al dicastero guidato da Toninelli. Sebbene lui, il titolare dei Trasporti, da quando la notizia s’è sparsa, non faccia altro che ripetere: «Io sono tranquillo, lavoro per gli italiani». Ma che il rimpasto non sia più un tabù è lo stesso segretario leghista a certificarlo. «Io non chiedo nulla, ma se ci fosse necessità di una squadra più compatta e di una revisione del contratto, io come sempre sono disponibilissimo», ha aperto ieri in tv. Finora sul tavolo di Conte la pratica non è arrivata, dicono a palazzo Chigi. Ma il primo vertice post-elezioni coi due vice è fissato per lunedì sera.
Scenario. Il Corriere della Sera: dopo la sconfitta alle Europee la tensione dentro ai 5 Stelle è alta: è stato messo in discussione il leader Luigi Di Maio, ma anche gli altri esponenti del governo. Il malumore è diffuso. «L’agenda la fa la Lega e noi zitti», sostiene qualcuno. In effetti dopo lo sblocca-cantieri stanno per arrivare sicurezza-bis e autonomia. Temi leghisti. Così per sottosegretari e ministri ci sarà una «graticola» da parte dei parlamentari delle Commissioni a cui fanno riferimento. E molti ambiscono a prenderne il posto. Ogni parlamentare farà una valutazione su una scheda del collega M5S e le valutazioni saranno poi raccolte da Di Maio per decidere un eventuale recall, una sostituzione forzata. Il sondaggio di Pagnoncelli sempre sul Corriere: la conferenza stampa indetta lunedì scorso dal premier Conte, che ha minacciato di dimettersi qualora non cessino le ostilità, ha reso esplicito uno scontro che rischia di paralizzare il governo disattendendo gli impegni presi nel contratto. Non stupisce quindi che rispetto a gennaio si sia dimezzata la quota di italiani convinti che il governo sia coeso: oggi solo un italiano su quattro (26%) la pensa così e lo scenario emerso dopo le Europee e le Amministrative fa segnare un calo più o meno netto dei principali indici di gradimento rispetto a un mese fa, a partire dal governo che perde quattro punti, attestandosi a 52. Il premier Conte perde 6 punti e viene raggiunto a quota 53 da Salvini, che pure perde 2 punti. A seguire il vicepremier Di Maio (indice 32), in flessione di 5 punti. E, tuttavia, nonostante il calo di 8 punti a un anno dall’insediamento, il governo Conte si mantiene su un livello piuttosto elevato di apprezzamenti se confrontato con gli esecutivi che l’hanno preceduto. Diamanti su Repubblica: negli ultimi mesi Matteo Salvini ha esibito in più occasioni atteggiamenti e simboli religiosi. Ha baciato la corona del Rosario, invocato la Madonna. Mentre in alcune foto, sulle mensole di librerie, dietro a lui, si scorge un’icona di Gesù, sotto al santino di Putin e al cappellino di Trump. Le passioni del vicepremier combinano sacro e profano, solo all’apparenza casualmente perché Salvini è attento alla comunicazione. Il partito che ha governato in Italia per quarant’anni si chiamava Democrazia “Cristiana”. Il suo simbolo era lo Scudo-Crociato. Dunque: la Croce. Un vero partito “nazionale”. La Lega di Salvini è pertanto ripartita dal “Forza-leghismo” degli anni Novanta per andare molto oltre. La Stampa in tema di ballottaggi: “Feudi rossi sotto assedio. Il Partito democratico rischia”. Si legge: “Anche dopo il trionfo delle europee, infatti, i sondaggi continuano a dare in crescita il partito del ministro degli Interni: segno che lo stile rude e le maniere forti, accompagnate da rosari, felpe e selfie continuano a incantare gli italiani. Espugnare le «cittadelle rosse» dell’Emilia-Romagna, naturalmente, confermerebbe quel trend. Ma un grande valore simbolico avrebbe anche una vittoria leghista a Livorno”. Mentre sul fronte del centrodestra il Governatore Toti intervistato dal Corriere afferma: “Mi interessa restituire al centrodestra un equilibrio che non ha più. Ci sono sondaggi che danno la Lega sopra il 35 per cento e Forza Italia sotto il 6 per cento. Io sto provando ancora a fare appello a Forza Italia perché apra le sue porte. In tanti non si riconoscono più nel vecchio partito di Silvio Berlusconi”.
Politica estera
Italia isolata sulle nomine Ue. Repubblica: al tavolo della trattativa sulle nomine europee l’Italia non c’è, è isolata e fuori dai giochi. In ballo ci sono Consiglio europeo, Bce, Parlamento e Alto rappresentante, oggi guidati da Tusk, Draghi, Tajani e Mogherini. Ieri a Bruxelles si sono incontrati i sei leader nominati coordinatori dalle tre grandi famiglie politiche europee: per i Socialisti Sanchez e Costa, per i Liberali Michel e Rutte e per i Popolari Plenkovic e Karins. Il fatto che si siano visti non per difendere gli interessi dei propri Paesi ma in rappresentanza delle loro famiglie politiche Ue, è un fatto innovativo e per molti positivo per la crescita di una vera politica europea. Ma a complicare le cose il fatto che almeno tre dei sei commensali gioca anche per se stesso: Michel, Rutte e Plankovic aspirano infatti a uno dei posti chiave dell’Unione, anche se poi a decidere saranno Merkel e Macron (al più insieme a Sanchez). Claudio Tito sempre su Repubblica: sta accadendo che dal 27 maggio le diplomazie e le cancellerie dell’Unione si siano messe in movimento per ridisegnare la geografia dei grandi incarichi. Si parla della possibilità che la Presidenza della Commissione e la presidenza della Banca Centrale europea (Draghi scade a fine ottobre) possano essere assegnati a Parigi e a Berlino. La presidenza del Parlamento potrebbe invece essere destinata ad un Paese del “nord” a guida liberale. E per l’Italia? Non potendo reclamare le tre posizioni occupate fino ad ora, la Germania e la Francia hanno sottoposto ufficiosamente alla nostra diplomazia l’idea di riservarci la presidenza del Consiglio europeo. Una buona soluzione, solo in teoria. Perché quel presidente, eletto a maggioranza qualificata e non all’unanimità dallo stesso Consiglio europeo, è normalmente un ex capo di governo. Quindi andando a ritroso per l’Italia e limitando l’elenco agli ultimi quattro premier, la scelta dovrebbe ricadere su: Paolo Gentiloni, Matteo Renzi, Enrico Letta o Mario Monti. Tre esponenti del Pd e il “tecnico” di certo inviso alla coalizione gialloverde. Come prevedibile, il governo italiano ha sostanzialmente bloccato sul nascere la trattativa. Non intende dare il placet, per una funzione così importante, a un ex capo del governo di centrosinistra. Anche se si trattasse dell’unica opportunità di rimanere nel cuore decisionale dell’Europa.
La nuova alleanza Mosca-Pechino. Il Sole 24 Ore: Putin, intervenuto al Forum di San Pietroburgo a fianco di Xi Jinping, ha attaccato duramente l’offensiva americana soprattutto contro Huawei, colosso delle tlc, e Nord Stream 2, il gasdotto che collegherà la Russia alla Germania attraverso il Baltico. Tra i fronti più caldi nello scenario globale, le tensioni tra Cina e Stati Uniti, dunque, che Putin ha accusato di «egoismo economico senza confini». Il presidente russo ha definito il dollaro «uno strumento di pressione sul resto del mondo» e ha puntato il dito sul tentativo americano di cacciare Huawei «senza tante cerimonie» dai mercati occidentali: «Già si parla della prima guerra tecnologica dell’era digitale». E, tuttavia, il presidente cinese ha mantenuto toni concilianti nei confronti di Donald Trump che ha chiamato «amico», assicurando che Pechino è pronta a condividere con i partner «invenzioni tecnologiche e knowhow, in particolare la tecnologia 5G»; e dicendosi convinto che gli Stati Uniti non hanno interesse a rompere i legami economici con la Cina. Malgrado il desiderio dei russi di diversificare il legame con Pechino, enfatizzato in questi tre giorni, la parte del leone resta affidata all’energia. È in questo ambito che rientrano le intese concluse da aziende italiane durante il Forum. In particolare, nel campo della generazione di energia elettrica, una jointventure costituita da Ansaldo Energia con REP Holding, società pietroburghese del gruppo Gazprombank. E nel corso del Forum sono stati firmati anche accordi che riguardano Maire Tecnimont.