Ecco le notizie in evidenza sulle prime pagine dei Quotidiani in edicola oggi Martedì 5 febbraio
Economia e Finanza
I no del M5s. Luigi Di Maio si mostra sicuro e risponde indirettamente a Matteo Salvini che lo incalza sulla Tav. E solo una delle partite che si giocano sul terreno di gioco, che al momento non pare essere tanto il governo del Paese quanto la campagna elettorale in arrivo, sia quella delle Regionali sia quella delle Europee. I 5 Stelle hanno alzato i toni spesso negli ultimi giorni, con Salvini che ha alternato repliche sferzanti a silenzi impassibili. La linea dura sull’Alta velocità Lione Torino, i toni ai limiti dell’offesa verso l’alleato Matteo Salvini, sono il segno che il M5s vuole arrivare sano e salvo al voto. E lo fa impiegando una somma che potrebbe sfiorare i 20 miliardi. Il “no” politico del vicepremier e quello quasi tecnico del ministro Toninelli alla Tav non piacciono alla maggioranza degli italiani, che vorrebbe realizzare l’opera, ma servono a tenere insieme il movimento. Al costo di due miliardi di euro, tra finanziamenti europei da restituire e somme già spese dalla Francia da rimborsare. Da mettere sul conto anche il no alle trivelle già inserito nel decreto semplificazioni. Lo stop alle attività di ricerca di idrocarburi nell’Adriatico e l’aumento del costo delle concessioni comporterà un costo che lo stesso provvedimento stima in 470 milioni di euro in risarcimenti agli «operatori colpiti dagli effetti della moratoria». Sulla stessa linea lo stop all’acqua pubblica. Costo una tantum: 15 miliardi, poi 5 miliardi all’anno secondo le stime di Utilitalia. In tutto circa 18 miliardi sulle spalle degli italiani per battaglie che peraltro sottraggono competitività al Paese.
Nomine Consob. Lega e 5Stelle limano l’accordo politico che porterebbe Paolo Savona alla presidenza della Consob, nuovo garante degli investitori e del risparmio. L’accordo si regge su due nomi. Marcello Minenna – l’economista che i 5Stelle sognavano presidente – verrebbe destinato alla carica di segretario generale della Consob. Il ticket Savona-Minenna è una soluzione che non dispiace al giovane sottosegretario Stefano Buffagni, il cui parere alla fine peserà. Anche Savona, ministro degli Affari Europei, è sollevato. Disponibile a trasferirsi in Consob, perché ormai ai margini dell’esecutivo, ha posto come condizione che i soci fondatori del governo (Lega e 5Stelle, appunto) fossero d’accordo sulla sua nomina. A breve i vertici della Consob dovrebbero quindi essere completati, ma i problemi non sembrano risolti e l’annuncio di possibili ricorsi sembra frenare anche l’entusiasmo del principale interessato la cui nomina rischia di incappare nelle leggi Frattini e Madia. La prima vieta il passaggio diretto di un ministro ad un’Authority. La seconda impedisce ai pensionati della pubblica amministrazione di assumere incarichi a meno che non siano gratuiti e per un anno. Savona, secondo i rigorosi interpreti della legge, potrebbe quindi assumere l’incarico senza percepire stipendio e per un periodo limitato. Nella maggioranza sono invece convinti che ci siano precedenti che possono giustificare la nomina. Resta ora da vedere se Savona accetterà l’incarico anche a se a rischio di ricorsi e se questa sera a palazzo Chigi Conte, Di Maio e Salvini decideranno di procedere mettendo anche in conto avvocati e carte bollate. L’ultima palla, alla fine, è nelle mani del Quirinale. Il nuovo presidente della Consob verrà nominato, su proposta del premier Giuseppe Conte certo, ma con un decreto del Presidente della Repubblica.
Politica Interna
La crisi del Pd. Si va facendo sempre più accidentata la strada per la costruzione del listone unitario in vista delle europee. In tanti si stanno chiedendo cosa sia meglio fare: se dare un via libera incondizionato all’ex ministro dello Sviluppo, o viceversa arginarlo, nella convinzione che il rassemblement sinistra-destra da lui proposto vada un po’ troppo oltre il Pd, tenda ad annacquarlo in una ammucchiata anti-sovranista che rischia di svuotare il principale partito d’opposizione. Sorta di prova generale — è il timore che si sta diffondendo — per la nascita di un nuovo soggetto politico da tenere a battesimo in occasione del rinnovo del Parlamento Ue. Le primarie del Pd si svolgeranno il prossimo 3 marzo. Vi parteciperanno i candidati che si sono piazzati ai primi tre posti nei congressi: Nicola Zingaretti, Maurizio Martina e Roberto Giachetti. Un Pd unito e largo può essere in ogni caso davvero la base per l’alternativa ai nazionalpopulisti». Non c’è entusiasmo e c’è il timore che le consultazioni dei gazebo saranno un flop. Per questa ragione al Nazareno stanno meditando di affidarsi a un’agenzia specializzata per fare una buona campagna di comunicazione. L’obiettivo è quello di riuscire ad uguagliare l’affluenza di un milione e ottocentomila elettori del Pd delle ultime primarie, quelle del 2017. Ma c’è chi si accontenterebbe di molto meno, cioè un milione, cifra che in verità al momento sembra difficile da raggiungere ai più realisti. Ma il vero enigma delle primarie riguarda un altro punto. Nei gazebo infatti il risultato delle consultazioni tra gli iscritti potrebbe venire rovesciato. Certo, anche i più ottimisti tra i supporter di Giachetti ritengono che a vincere alla fine sarà il presidente della giunta regionale del Lazio, ma se il loro candidato di piazzerà al secondo posto significherà che Zingaretti dentro il partito non avrà vita facile. Sia che i renziani decidano di restare dentro il Pd sia che invece optino per la scissione.
Processo a Salvini. Il j’accuse del tribunale dei ministri nei confronti di Salvini sta funestando i nostri giorni. Reazioni, obiezioni, elucubrazioni: non se ne può più. Sicché, mentre attendiamo a mani giunte il responso della Giunta, ecco un ombrello contro le panzane. Primo: il reato. Sequestro di persona, punito dall’articolo 605 del codice penale. Un delitto odioso, che nel caso di specie dovremmo moltiplicare per 177 volte, quanti erano i migranti trattenuti a bordo della nave Diciotti. Eppure a nessuno importa un fico secco del reato, tutti si scervellano sul reo, che, se ha agito da ministro, un Senato assennato dovrebbe salvare. Secondo: la responsabilità. È dell’intero governo, ha dichiarato il presidente del Consiglio. Tutti colpevoli, nessun colpevole, ma un conto è la responsabilità politica, un conto quella giuridica. Terzo: l’esimente. Ho agito per difendere i confini, obietta l’imputato. La legge costituzionale n. 1 del 1989 consente al Parlamento di negare l’autorizzazione a procedere quando i ministri agiscano per un “preminente interesse pubblico”, ma evoca altresì un “interesse dello Stato costituzionalmente rilevante”, ed è questo il punto decisivo. Quarto: le immunità. Intervengono diversi esperti sulla questione del processo a Salvini. Tra loro, Gaetano Azzariti che insegna Diritto costituzionale a Roma: si tratta di capire se, nell’esercizio di funzioni di governo, si possa perseguire l’interesse pubblico anche violando lo Stato di diritto, come, per la procura, avrebbe fatto Salvini: non la sussistenza del reato, ma l’eventualità che l’azione del ministro possa spingersi sino a un sequestro di persona aggravato. Lorenza Carlassare è costituzionalista, prof. emerito a Padova: Ia questione è semplice per chi non vuole deliberatamente confondere: l’autorizzazione a procedere è un giudizio politico su un comportamento di un ministro nell’esercizio delle sue funzioni ministeriali. Massimo Villone, costituzionalista ed ex senatore del Pds: il Senato non fa inchieste, deve dare un giudizio solo politico. Pellegrino, avvocato, è un amministrativista: le norme costituzionali parlano chiaro. Il Parlamento non deve dire se Salvini ha commesso reati, che è compito solo dei giudici. Francesco Pallante insegna diritto costituzionale a Torino: qui sarà un voto sulla legittimità politica, rispetto all’interesse nazionale, dell’azione di un ministro.
Politica Estera
Il viaggio del Papa. Al crepuscolo, le luci dello skyline sullo sfondo, il grande imam di Al Azhar, Ahmad Al-Tayyib, leader dell’islam sunnita, paventa «un declino culturale che fa presagire lo scoppio terza guerra mondiale» e Francesco, di rimando, osserva: «Non c’è alternativa: o costruiremo insieme l’avvenire o non ci sarà futuro». Nel Founder’s Memorial di Abu Dhabi, davanti a settecento religiosi del pianeta — vescovi, imam, rabbini — i due firmano solenni un «documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza» che tra l’altro condanna il «terrorismo esecrabile» e afferma «il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi» e «il diritto della donna a istruzione, lavoro e esercizio dei diritti politici». E Francesco, primo Papa a mettere piede nella Penisola arabica, pronuncia il discorso forse più importante del pontificato rispetto ai rapporti con l’islam. Da una parte c’è l’Islam con le sue divisioni e le politiche non sempre lineari, a volte persino collaterali al terrorismo. Dall’altra c’è il cristianesimo, anch’esso sfaccettato e pieno di contraddizioni. «E’ giunto il tempo in cui le fedi si spendano più attivamente, con coraggio e audacia, senza infingimenti, per aiutare la famiglia umana a maturare la capacità di conciliazione, la visione di speranza e gli itinerari concreti di pace». Papa Francesco parla alla platea formata da imam, vescovi, uomini religiosi di varie fedi, ma anche esponenti di sikh, zoroastriani, indù, buddisti. Nel cortile della moschea di Abu Dhabi per certi versi ieri si è replicato lo spirito di Assisi, il maxi raduno tra tutte le religioni iniziato nel 1986 in Umbria con Papa Wojtyla. Francesco ha preparato un discorso molto forte e coraggioso che resterà negli annali come il manifesto del dialogo tra le fedi. Ha definito cosa significa «dialogare». Vuol dire avere con l’interlocutore intenzioni sincere, non fingere mai, avere il coraggio della alterità, senza abdicare al compiacimento dell’altro e della sua libertà. C’è solo da chiedersi se tutto questo sarà sufficiente.
L’Italia e il Venezuela. L’Unione procede ancora una volta in ordine sparso a proposito della crisi in Venezuela. In particolare ieri, l’Italia ha nuovamente bloccato una dichiarazione congiunta anche se non conteneva il riconoscimento Ue di Juan Guaidó come presidente ad interim del Paese. Il documento si limitava a reiterare il «sostegno» dell’Ue all’Assemblea nazionale venezuelana e al suo presidente e menzionava il fatto che alcuni Stati membri hanno riconosciuto Guaidó sulla base delle loro «prerogative». II primo passo lo fanno Francia e Spagna. Poi, con il passare delle ore, altri governi europei si uniscono. A fine giornata la lista dei Paesi Ue che riconoscono Juan Guaidó come presidente legittimo del Venezuela ne indude diciannove. Firmano un documento congiunto per sostenere il numero uno dell’Assemblea Nazionale e per chiedergli di convocare elezioni presidenziali «libere, giuste e democratiche». Restano un passo indietro gli altri nove governi, tra cui l’Italia. Tanto che per la prima volta il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, interviene esplicitamente su un tema di politica estera (che non sarebbe di sua competenza) per invitare il governo a riavvicinarsi agli alleati. Per Mattarella, nella scelta tra «volontà popolare» (Guaidó) e «violenza» (Maduro) non ci devono essere incertezze. Bisognerebbe schierarsi a favore del presidente ad interim, per chiedere elezioni anticipate. Eppure il governo Lega-5Stelle, nonostante la dura posizione del partito di Salvini contro «il dittatore rosso Maduro», blocca l’Europa che cercava una linea unica a favore di Guaidó. E il blocco dell’Italia ha fatto saltare la posizione comune. Palazzo Chigi in serata diffonde una nota per provare a dire che comunque «l’Italia appoggia il desiderio del popolo venezuelano di giungere nei tempi più rapidi a nuove elezioni presidenziali libere e trasparenti, attraverso un percorso pacifico e democratico». E poi aggiunge che «è urgente intervenire subito per alleviare le sofferenze materiali della popolazione e per consentire l’immediato accesso agli aiuti umanitari».