ECONOMIA E FINANZA
Autonomia regionale. Quello che all’inizio sembrava agli osservatori più disattenti solo un vivace ma tutto sommato innocuo dibattito regionale senza gravi conseguenze politiche, una diatriba complicata sul piano tecnico e quindi indigesta per il grande pubblico, si è trasformato in un terreno di lacerante scontro politico, ed è ora uno dei motivi per cui rischia di andare in pezzi la maggioranza giallo-verde. Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, tre Regioni del Nord che producono oltre il 40% del reddito nazionale, chiedono più autonomia, chiedono che lo Stato trasferisca loro una serie di funzioni, in nome di una presunta maggiore efficienza amministrativa nell’offerta dei servizi pubblici. Si può aggiungere a questa prima osservazione che, pur con l’incognita dell’economia non osservata, anche il rapporto tra ricchezza netta e reddito dichiarato fa emergere differenze territoriali significative. Il patrimonio di un residente ligure è 15 volte maggiore del suo reddito; quello di un lucano appena 9,6. Quasi come quello di un friulanogiuliano (9,7). A ben guardare, però, in Friuli Venezia Giulia c’è un livello di reddito pro capite (16.500 euro) più alto della Basilicata (10.100 euro) e quasi uguale alla Liguria (16.300). Le differenze nel rapporto ricchezza/reddito vanno quindi ricercate anche nella composizione del patrimonio: cioè nelle discrepanze tra valori immobiliari, finanze e debiti. Inoltre, va ricordato che, secondo l’Istat, l’Italia è caratterizzata da fortissimi divari interni. Secondo l’istituto, infatti, nel 2017 il Pil pro-capite della Lombardia era quasi due volte e mezzo quello della Calabria. E Milano, la grande metropoli lombarda, sta vivendo una fase di eccezionale dinamismo: tanto più notevole visto il ristagno dell’Italia nel suo complesso. In questo contesto vi è da chiedersi se l’autonomia sia davvero nel migliore interesse delle ricche regioni settentrionali. Ora, è possibile che nel breve periodo la maggiore autonomia porti qualche beneficio. Ma è del lungo periodo che bisogna preoccuparsi.
Web tax. Che il mondo virtuale abbia bisogno di regole è evidente ogni giorno che passa. L’idea che esistano luoghi dove si discute, si crea opinione, si commercia e si concludono affari, e che dispongano di una sorta di extraterritorialità sta declinando. Per fortuna. Fanno testo le multe comminate dalle varie autorità antitrust al di qua e al di là dell’Atlantico. Non ultima quella da 5 miliardi di dollari imposta a Facebook per la vicenda Cambridge Analytica (i dati di decine di milioni di utenti posseduti dal social network erano stati usati per fare propaganda politica). Anche se proprio su quella multa si sono appuntate le critiche di molti. Quando Google è stata sanzionata dalla Commissione europea non ha fatto altro che mettere quella multa tra i costi operativi, come a dire non solo che se l’aspettava ma che rientrava nel normale business. Ben diverso è imporre regole sulla privacy o il rispetto delle regole di concorrenza. Ciò imporrebbe alle società monopoliste di rivedere modelli di business e funzionamento.
Negli scorsi anni, i giganti del web hanno dimostrato di essere molto bravi a eludere il fisco: si stima che negli ultimi cinque anni i colossi Internet, grazie al ricorso alla tassazione in paradisi fiscali e ai vari sistemi di elusione fiscale, hanno ottenuto un «risparmio fiscale» di quasi 46 miliardi di euro, di fatto “impoverendo” i Paesi dove il fatturato è generato. Recentemente si è discusso del fatto che un’eventuale web tax consentirebbe di rendere omogenee le imposte sulle transazioni finanziarie, alle quali sarebbe applicata una nuova imposta, che potrebbe arrivare al 3% sul fatturato di pubblicità online delle grandi società digitali. Tuttavia, il mancato accordo in Europa sul tema sta frenando l’emanazione di regole attuative, di cui la web tax ha bisogno per poter essere riscossa. In tale contesto, lo slittamento del provvedimento rallenterà ulteriormente l’applicazione della misura, dalla quale erano attesi incassi per 150 milioni quest’anno e 600 milioni l’anno a partire dal 2020.
POLITICA INTERNA
Il carabiniere ucciso a Roma: la foto scandalo. Le aperture dei principali siti stranieri, dalla Cnn al Washington Post, non lasciano adito a dubbi. Lo scatto che ritrae Gabriel Natale Hjorth mentre – ammanettato dietro la schiena, gli occhi coperti da una sciarpa – aspetta di essere interrogato in un ufficio dei carabinieri, è diventato un caso internazionale. «Sconvolgente». Tale persino da oscurare le indagini sull’omicidio del vicebrigadiere Cerciello Rega. In grado di innescare un conflitto diplomatico tra Italia e Usa. Mentre Salvini minimizza e il Pd urla alla violazione dello stato di diritto, in serata è il premier Giuseppe Conte a intervenire via Facebook: «Ferme restando le verifiche di competenza della magistratura, riservare quel trattamento a una persona privata della libertà non risponde ai nostri principi e valori giuridici, anzi configura gli estremi di un reato o, forse, di due reati». Conte ha anche lodato l’immediata censura del comandante dell’Arma «Inconcepibile, il militare responsabile è stato trasferito». Infatti, mentre la macchina della propaganda procede imperterrita intorno al dramma del sottufficiale campano, il carabiniere che ha bendato Gabriel Christian Natale Hjorth dopo il fermo per l’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega è stato trasferito ad un incarico non operativo. Gli altri militari che erano in quella stanza e hanno assistito senza intervenire, ma anche chi ha scattato la foto che mostra il giovane con le braccia dietro la schiena e i polsi stretti dalle manette, potrebbero subire la stessa sorte. Mentre l’Arma ribadisce che quel gesto «è inaccettabile», il procuratore generale di Roma Giovanni Salvi avvia un procedimento disciplinare sul comportamento dei carabinieri e su quello dei magistrati perverificare se quanto accaduto possa inficiare l’esito degli accertamenti, ma subito chiarisce che «l’inchiesta è stata regolare». E il dibattito politico si infiamma. Secondo l’Arma il giovane è stato tenuto con la benda sugli occhi «4 o 5 minuti per non fargli vedere quanto c’era in quell’ufficio, soprattutto sui monitor. Poi è stato portato in un’altra stanza nella caserma di via in Selci dove si trova il nucleo operativo». In una nota trasmessa ieri nel tardo pomeriggio, Salvi sottolinea che «le informazioni fornite dalla Procura della Repubblica circa le modalità con le quali è stato condotto l’interrogatorio consentono di escludere ogni forma di costrizione».
Fibrillazioni nel governo. «Non accettiamo di stare in un governo in cui prevalgono le ragioni del no. Sapevamo fin dall’inizio che quella con il M5S sarebbe stata un’alleanza complicata, difficile…». Giancarlo Giorgetti tenta un ultimo strattone per convincere «Matteo». E chissà che stavolta non gli riesca il colpo, se è vero che il vicepremier piomberà in giornata sul cantiere dell’Alta velocità in Piemonte per piantare la sua bandiera, dopo la protesta dei No Tav di sabato, con incidenti e poliziotto ferito. Se fosse chiaro il percorso che si aprirebbe in caso di crisi di governo, Matteo Salvini non avrebbe nessuna remora a percorrere l’autostrada che lo porterebbe alla vittoria elettorale. La convivenza con il M5S è diventata una camicia di forza. Il leader del Carroccio però non stacca la spina. È convinto che il Parlamento non verrebbe sciolto, si formerrebbe un governo di emergenza elettorale che farebbe una manovra economica dettata dalla nuova Commissione Ue, lasciando ad un altro titolare del Viminale il compito di portare al voto gli italiani. E in questo panorama la data da segnare è il 6 di agosto. Quel giorno, in Senato, concluderà il suo iter il decreto Sicurezza bis, uno dei provvedimenti cruciali del Ministro dell’Interno. Ed è lì che il governo rischia davvero: al Senato potrebbe andare in scena la bocciatura del decreto. Dati i numeri stentati, dato il non scontato via libera di tutti i 5 stelle, dato che alla Lega mancherà certamente Umberto Bossi, tuttora alle prese con seri problemi di mobilità, il Sicurezza bis potrebbe franare. Né in Lega si esclude il più volte evocato incidente d’aula. In una riflessione attribuita a Giorgetti, la Lega potrebbe accettare una crisi pilotata che metta in sicurezza la manovra finanziaria 2020. Che sarebbe condotta in porto da un governo di minoranza, guidato magari dallo stesso Giuseppe Conte. Ma senza l’opposizione della Lega, che si limiterebbe a non votarla. Insomma, una sorta di «non sfiducia» in cambio della garanzia di un ritorno alle urne in tempi accelerati, non oltre febbraio.
POLITICA ESTERA
Brexit. Boris Johnson, conservatore e paladino della Brexit, giura di voler attuare il divorzio entro il 31 ottobre «vivi o morti». E minimizza sul danno all’economia di un eventuale no-deal, stimato da alcuni esperti in una botta da 90 miliardi nei prossimi 15 anni. L’ex cancelliere Philip Hammond, cui si devono alcune delle stime sugli effetti del no-deal, si è dimesso per protesta, e guida la fronda europeista interna al partito. Hammond si è incontrato nei giorni scorsi con il ministro della Brexit del governo ombra laburista, Keir Starmer, per studiare il modo di bloccare il piano del governo. Altri incontri seguiranno ad agosto, prima che il parlamento torni al lavoro al termine della pausa estiva. «Il senso di marcia sotto Boris Johnson è chiaro», ha detto Starmer all’«Observer». «Costruire un’alleanza bipartisan per bloccare il no-deal è piu’ importante che mai». Tra le ipotesi allo studio, una legge che costringa Johnson a cercare un rinvio oltre il 31 ottobre, in caso di mancato accordo, e perfino una mozione di sfiducia. In questo scenario, il leader laburista Jeremy Corbyn da Sky rilancia l’appello per un nuovo referendum schierando il partito sul «Restare» in caso di mancato accordo con Bruxelles. Il Parlamento è in vacanza fino al 3 settembre, ma è difficile ricordare a Londra un’estate politica più fibrillante. Lasciati i divani verdi dei Comuni, le bordate si scambiano dalle trincee dei media. Dove rimbalzano gli ultimi sondaggi YouGov commissionati dal Mail on Sunday: da quando Boris Johnson è salito al potere con il suo ottimismo Brexit «senza se e senza ma» entro ll 31 ottobre, il partito Conservatore ha raggiunto quota 30%, guadagnando il 10% e staccando di analoga percentuale i laburisti di Corbyn.
Proteste di piazza in Russia. La polizia russa ha arrestato quasi 1.400 persone a Mosca dopo le manifestazioni per chiedere elezioni libere. Fra questi il blogger e attivista Alexei Navalny, fra i più influenti critici del Cremlino, è stato arrestato e condannato nuovamente a 30 giorni di carcere per aver indetto la protesta. Ieri il 43enne dissidente è stato però trasferito in ospedale dalla prigione dopo aver sofferto di una «grave reazione allergica» — così l’ha definita il suo portavoce — nonostante non abbia mai sofferto di allergie. Mentre si trovava in cella, il più popolare degli avversari politici di Putin è stato colpito da un misterioso malessere che la sua portavoce, Kira Yarmish, ha definito un «grave attacco allergico». È stata proprio Kira Yarmish a dare la notizia e a far sapere che il dissidente era giunto in ospedale con il viso gonfio ed emzioni cutanee rosse sulla pelle. Le parole di Yarmish hanno destato enorme preoccupazione tra i sostenitori di Navalny. La portavoce ha poi precisato che al blogger anti-Putin era stata fornita «la necessaria assistenza medica» pur rimanendo controllato a vista dagli agenti di polizia. E in serata ha finalmente tranquillizzato tutti: le condizioni di salute di Navalny- ha fatto sapere – sono «soddisfacenti».