Economia e Finanza
Spesa pubblica: si taglia solo l’1%. Un taglio di non più dell’1% degli oltre 860 miliardi di spesa attesi nel 2022. È un obiettivo che non appare ambizioso quello che il Governo conta di centrare con la nuova fase di spending review destinata a scattare con la prossima legge di Bilancio. Secondo le indicazioni del Programma nazionale di riforma (Pnr), parte integrante del Def, l’esecutivo punta a recuperare 8 miliardi alla fine del prossimo triennio: 2 già nel 2020 e 3 l’anno nel biennio seguente. A fissare questi target è il Documento di economia e finanza (Def) approvato nei giorni scorsi. Che però in uno dei suoi allegati ammette implicitamente che realizzare l’intervento non sarà facile. E a farlo notare è anche un dossier del Servizio studi della Camera proprio sul Def: in alcuni casi «sono emersi rischi per il completo conseguimento dell’obiettivo di risparmio, a fronte dei quali le amministrazioni hanno raramente proposto interventi correttivi». Non solo: il monitoraggio sulla “spending” 2018, con la quale i ministeri sulla base dell’ultima manovra targata Gentiloni-Padoan dovevano attuare un taglio strutturale di un miliardo, mette in evidenza come molte amministrazioni non riescano a resistere all’antico fascino dei tagli lineari. L’economista Nicola Rossi evidenzia poi sul Corriere della Sera che nell’ultimo ventennio la nostra finanza pubblica “ha esibito disavanzi prossimi, in media, al 3% e sostanzialmente a prescindere. Quale che fosse l’effettivo andamento dell’economia. Si sono fatti disavanzi negli anni buoni e meno buoni: nel 2006 e nel 2014 (anno di crescita zero o quasi). E — per chiarezza — non necessariamente per fare investimenti: al netto degli investimenti, si registra infatti nella media del periodo un eccesso di spese correnti sulle entrate non lontano dallo 0,5% all’anno. Se ci fossimo limitati a fare disavanzi per finanziare la spesa in conto capitale ci ritroveremmo oggi con un debito pubblico vicino al 125% (piuttosto che al 135%). Non casualmente, quindi, le elaborazioni del Fondo monetario identificano l’Italia come uno dei Paesi in cui la politica fiscale — anche in ragione dell’elevato debito pubblico — finisce per avere una efficacia anticiclica del tutto trascurabile. Insomma, lungi dall’essere uno strumento congiunturale i disavanzi sono ormai un nostro modo di essere”.
Bankitalia rischia la paralisi. Solo 10 giorni per le nomine. La Banca d’Italia rischia la paralisi. Lega e M5S ora litigano anche sulle nomine per il direttorio di Via Nazionale. Risultato: anche martedì prossimo il Consiglio dei ministri potrebbe non emettere i pareri necessari per ratificare le indicazioni del Governatore Ignazio Visco. Un nuovo attacco a Palazzo Koch. Ma anche, e soprattutto, un ennesimo scontro tra leghisti e grillini che prende le mosse dalla battaglia in corso sul nuovo ragioniere generale dello Stato. Che dovrà prendere il posto di Daniele Franco in scadenza il prossimo 20 maggio e destinato ad assumere l’incarico di vicedirettore generale di Bankitalia. Tutto si svolge lungo una sottilissima lama di rasoio. Perché se il governo non rilascia i suoi pareri motivati sui tre nuovi membri del direttorio entro il 9 maggio, lo stesso direttorio non avrà il numero legale. Sostanzialmente paralizzando l’intera attività della Banca d’Italia. Con un direttorio monco a causa dell’assenza di collegialità via Nazionale non potrebbe deliberare su operazioni di fondamentale importanza. Niente fusioni tra istituti – eventualità in realtà remota- ma nemmeno emissioni obbligazionarie disposte dalle banche per rafforzare i requisiti patrimoniali. E nel caso in cui qualche istituto si sentisse danneggiato dal ritardo potrebbe ricorrere in giudizio: il conto lo pagherebbe l’Esecutivo. La mancata ratifica delle nomine in Bankitalia colpirebbe anche il settore delle assicurazioni. Il direttore generale della Banca d’Italia è infatti per statuto il responsabile dell’Ivass, l’istituto di vigilanza sulle assicurazioni. Senza il presidente anche l’Ivass sarebbe paralizzato. Alla fine la ratifica arriverà, magari non per tutti i membri scelti da via Nazionale. Lega e 5Stelle hanno avanzato critiche sulla scelta di Alessandra Perrazzelli , giudicata troppo vicina al Pd . E una soluzione che è stata accarezzata è quella di congelare solo la sua nomina. A qualcuno piace perche il direttorio avrebbe comunque i numeri per funzionare e verso Bankitalia rimarrebbe quindi una pistola puntata, a dimostrare che il governo del cambiamento mal tollera l’indipendenza delle Authority.
Politica interna
Di Maio, ultimatum su Siri. A Salvini che sul caso Siri lo avverte, dicendo che nemmeno il premier può essere considerato un giudice, Conte dalla Cina risponde per le rime: «Sono d’accordo, sono avvocato. Non è certo con l’approccio del giudice che affronterò il problema». Detto questo, è probabile che il sottosegretario leghista resti qualche altro giorno sulla graticola, visto che domani una visita in Tunisia potrebbe allungare i tempi del faccia a faccia. Prima l’interrogatorio di fronte ai pubblici ministeri, poi l’incontro con il presidente del Consiglio per una sospensione dall’incarico. Potrebbe essere questo l’esito della mediazione in corso all’interno del governo sul destino di Siri. Si cerca di prendere tempo per arrivare a un passo indietro di Siri, sia pur temporaneo. Ieri Conte e Di Maio ne hanno discusso in una telefonata. I contatti sono continui, la linea scelta è quella di arrivare a una soluzione condivisa con il leader della Lega Matteo Salvini. E dunque si tenta la carta dell’attesa, di un provvedimento non definitivo «perché — ripetono tutti — questa vicenda non può e non deve mettere a rischio la tenuta dell’esecutivo». Anche se è ben chiaro che dopo l’esposizione di Di Maio e di altri leader grillini il rischio forte è quello di «perdere la faccia». Nel colloquio con Conte, Di Maio avrebbe sottolineato la necessità di una consultazione con Salvini «perché non dobbiamo aprire crepe, va salvaguardata la sensibilità dell’alleato». E dunque la sua opzione è quella di «dimissioni temporanee di Siri, in attesa — mi auguro — che la vicenda si risolva positivamente per lui». Di Maio sa bene che «questa è ormai una questione di principio per il Movimento», spiega che «il governo non può permettersi passi falsi». In gioco, è fin troppo evidente, c’è la sua credibilità, il rischio che l’ala dissidente si metta di traverso. E allora chiede a Conte di mediare con Salvini per una soluzione di compromesso.
Di Maio riposiziona il M5S a sinistra. Tra gli appunti di Luigi Di Maio e dei suoi strateghi c’è una frase sottolineata più volte: «Il Movimento 5 stelle deve essere equidistante dalla Lega e dal Pd, in modo da poter tenere aperte due porte, una a destra e una a sinistra». Negli ultimi mesi, il baricentro si era spostato troppo a destra. Ed ecco che allora, in piena campagna elettorale, il leader cerca di riequilibrare i pesi annunciando cinque proposte lontane dagli orizzonti leghisti: acqua pubblica; conflitto d’interessi; salario minimo, taglio degli stipendi dei parlamentari e una legge per togliere la sanità dalle mani dei partiti. «Su queste cinque proposte La Lega è con noi? Se è con noi, possiamo dare queste leggi al Paese già quest’anno», dice Di Maio da Varsavia, dove partecipa alla convention di Kukiz’15, loro alleati alle prossime Europee. Il primo banco di prova potrebbe essere proprio la proposta di legge sull’acqua pubblica sulla quale è al lavoro dall’inizio della legislatura la deputata grillina Federica Daga. Di certo, non ci sarà il tempo per approvare tutte e cinque le proposte entro fine anno come promette il leader. Dalla Lega, per ora, è arrivata una risposta freddina. «Di Maio fa solo campagna elettorale», dicono i colonnelli di Matteo Salvini. E non nascondono l’irritazione per leggi che «sembrano tagliate su misura per il Pd», come se si volesse riaprire quel forno. Una preoccupazione che non si discosta troppo dalla realtà. «C’è un pezzo di establishment, nel Movimento, che sta remando in quella direzione», rivela un membro del governo pentastellato. Intervistato dalla Stampa il dem Graziano Delrio apre al salario minimo: «siamo d’accordo, lo abbiamo proposto per primi: certo andrebbe discusso come realizzarlo. Per noi va fatto in accordo con i sindacati. Sul taglio degli stipendi diciamo che serve loro per recuperare qualche punto nei sondaggi: se accettassero di discuterne seriamente si potrebbe trovare un’intesa». Marcello Sorgi sempre sulla Stampa si chiede pero “quanto sia credibile la svolta a sinistra di un leader come Di Maio, che ha difeso l’alleanza giallo-verde a dispetto dei santi, di divisioni interne del Movimento e di consistenti cali di voti in tutte le scadenze elettorali parziali consumate fin qui. È concreto il dubbio che possa trattarsi di una tattica per cercare di trattenere consensi di elettori di centrosinistra, che il 4 marzo 2018 corsero a votare 5 stelle per dare una lezione al Pd renziano, e oggi potrebbero ricredersi di fronte alle prime mosse di quello zingarettiano”.
Politica estera
I socialisti primi in Spagna. Ultradestra al 10%. Pedro Sánchez ce l’ha fatta. Ha riportato un partito socialista al primo posto di un grande Paese europeo e toccherà a lui tentare di fare un governo. Non passa la proposta di una Spagna muscolare e intollerante. Dalle urne esce un desiderio di normalità e riconciliazione nazionale che sarà però difficile tradurre in un governo stabile. Il radicalismo nero entra nel Congresso con una pattuglia di deputati importante anche se inferiore alle attese, ma si ferma chiaramente fuori dalla soglia del governo. Le destre che avevano fatto a gara nell’inseguire la retorica nazionalista e anti catalana dell’estremismo di Vox, quasi eguagliano per numero di voti le sinistre, ma tutte assieme superano di poco il numero dei deputati che aveva il solo Partido Popular appena tre anni fa. Il Pp che ha guidato la Spagna dal 2011 al 2018, spesso con maggioranza assoluta, ottiene il peggior risultato di sempre. Il giovane leader Pablo Casado faticherà a restare al suo posto e il Pp con due concorrenti in crescita dovrà decidere che anima del conservatorismo vuole incarnare. La sinistra di Pablo Iglesias (Unidas Podemos) è assieme al Pp la grande sconfitta del voto di ieri. Eppure la strategia di Up potrebbe riuscire come mai prima a condizionare verso sinistra le politiche di un esecutivo a guida socialista. Il pallino del governo, infatti, è saldamente in mano al Partito socialista che torna a crescere dopo dieci anni. Il Psoe di Pedro Sánchez è nettamente primo partito con il 29% dei consensi, una crescita di 7 punti percentuali rispetto a 3 anni fa. Grazie al sistema elettorale guadagna un numero anche maggiore di deputati. Sánchez è «liquido», «post ideologico», ma ha una base a cui rispondere che già nella festa della notte gli ha gridato «con Rivera no», cioè niente alleanze a destra. Sánchez ha ora la fortuna di poter cercare una maggioranza senza fretta. Potrà tergiversare almeno fin dopo il voto europeo di maggio in modo da evitare di scontentare qualcuno di quelli che l’hanno scelto nelle urne appena ieri.
Oltre 300 vittime nella guerra in Libia. Tensioni sull’apertura del consolato italiano a Bengasi. II bilancio dei morti a Tripoli supera ormai quota 300, tra cui 90 bambini e un centinaio di donne. A quasi un mese dall’inizio dell’attacco delle truppe del generale Haftar contro le milizie alleate del governo del premier Fayez Sarraj per la Libia si prospetta lo scenario peggiore: una guerra che si incancrenisce tra bombardamenti nelle zone urbane e guerriglia senza una vera prospettiva di soluzione negoziata. II portavoce militare della Cirenaica, Khaled Mismari, ha parlato di «bombardamenti chirurgici contro le basi e i depositi di munizioni delle milizie di terroristi islamici legate a Misurata». Ma da Tripoli giungono cronache drammatiche di vittime civili e abitazioni devastate. I deceduti nei raid tra sabato e ieri prima dell’alba sono almeno 11. Sarraj e il suo governo lo accusano di aver utilizzato «aerei stranieri» e chiedono un mandato d’arresto contro di lui e 63 suoi alti ufficiali. Intanto l’avvitamento di Roma sul dossier libico è confermato dalla mancata apertura, o meglio riapertura, del consolato italiano a Bengasi, feudo del generale Khalifa Haftar. La sede di rappresentanza nel cuore della Cirenaica doveva essere rimessa in funzione ieri, 28 aprile, affidandone la responsabilità a un ambasciatore già designato dalla Farnesina in dicembre per ricoprire, appunto, l’incarico di console generale. Così non è stato.. «Il ministero degli Esteri libico ha chiesto di rinviare l’apertura del consolato per via del conflitto», confermano da Tripoli. In realtà, il Consiglio presidenziale ha detto chiaramente al governo gialloverde che, a guerra in corso, l’apertura di Bengasi sarebbe stato considerato un ulteriore favore al generale e un atto ostile nei confronti del Gna, posizione che avrebbe ribadito lo stesso Sarraj nel colloquio telefonico con Conte di due giorni fa. «Riaprire ora il consolato a Bengasi è fuori discussione, anche solo inviare un nostro diplomatico a Bengasi è complicato – spiegano le fonti – anche perché ci sono manifestazioni anti-italiane e c’è un certo risentimento nei confronti del nostro Paese».