Economia e Finanza
Debito, l’altolà della Commissione Ue. Come atteso, la Commissione europea ha inviato ieri una richiesta di chiarimenti al governo italiano per capire le ragioni del nuovo controverso aumento del debito pubblico tra il 2017 e il 2018. La missiva, indirizzata al ministro dell’Economia Giovanni Tria, è propedeutica a un rapporto sul debito che potrebbe essere pubblicato il prossimo 5 giugno. Cruciale sarà la risposta del governo italiano per evitare quanto possibile la mano pesante delle autorità comunitarie. Nella lettera Bruxelles nota che il paese «non ha effettuato progressi sufficienti nel corso del 2018 per rispettare il criterio del debito». In quest’ottica, chiede al governo di elencare i «fattori rilevanti» che spiegano questa situazione. Una risposta è attesa entro domani. Nella missiva, il vice presidente Valdis Dombrovskis e il commissario agli affari monetari Pierre Moscovici confermano che l’esecutivo comunitario sta lavorando sulla preparazione di un rapporto sullo stato del debito. Il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, ne ha parlato ieri con il premier Conte e oggi vedrà anche Salvini: per il momento, alla Ue verrà recapitata una risposta tecnica, adducendo i “fattori rilevanti” che secondo il governo hanno prodotto un aumento del rapporto tra debito e prodotto interno lordo, nel 2018 (dal 131,4 al 132,2%), poi quest’anno (al 132,6%). Subito dopo la risposta italiana partirà il negoziato con la Commissione, che potrebbe proporre una decisione sull’apertura di un’eventuale procedura d’infrazione contro l’Italia già all’Ecofin del 14 giugno in Lussemburgo. Il prodotto interno lordo nominale (considerando anche l’aumento dei prezzi), doveva salire del 2,3%, ma quest’anno, vuoi per l’inflazione bassa, vuoi per i fattori internazionali che incidono sulla crescita reale (praticamente nulla), si fermerà all’1,29. Mentre i tassi e la spesa per gli interessi aumentano più velocemente, spingendo il debito. Per fermare la sua corsa ci sono due strade. Una spinta sulla crescita dell’economia, la strada che il governo vorrebbe seguire. Oppure una manovra di bilancio restrittiva che faccia aumentare l’avanzo primario, cioè il saldo tra entrate e spese al netto degli interessi, operazione che Conte e Tria vorrebbero assolutamente evitare, perché finirebbe, a sua volta, per deprimere la crescita.
L’Italia nel mirino Usa. Italia, osservata speciale. Il dipartimento al Tesoro americano mette l’Italia sotto osservazione, inserendola nella lista dei partner commerciali che minacciano di creare problemi. Una determinazione basata sui fatti e sui numeri, non sui giudizi politici relativi alla coalizione di governo, come peraltro aveva fatto lo stesso presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, quando nei mesi scorsi aveva indicato il nostro paese come uno dei principali rischi per la stabilità economica globale. Ogni sei mesi il Treasury Department consegna al Congresso il “Report on Macroeconomic and Foreign Exchange Policies of Major Trading Partners of the United States”, che analizza le politiche macroeconomiche e valutarie di ventuno paesi con cui gli Stati Uniti hanno rapporti commerciali importanti. La lista di quelli messi sotto osservazione per il sospetto che manipolino le monete è abbastanza lunga, e potrebbe aprire la porta a sanzioni. Oltre all’Italia comprende Cina, Giappone, Germania, Corea del Sud, Irlanda, Vietnam, Singapore e Malesia. Il faro sull’Italia è frutto della decisione di Washington nell’era Trump di ampliare il novero dei paesi sotto il microscopio per eventuali danni all’economia americana. Il giudizio sull’Italia sottolinea come il Paese nel 2018 abbia «registrato un surplus delle partite correnti pari al 2,5% del Pil», mentre quello «nell’interscambio di merci con gli Stati Uniti è salito a 32 miliardi di dollari». L’Italia, continua il rapporto, vede «la competitività continuare a risentire di produttività stagnante e aumenti del costo del lavoro». La ricetta: serve l’avvio di «fondamentali riforme strutturali per sollevare le prospettive di crescita di lungo periodo – coerenti con una riduzione di elevata disoccupazione e debito pubblico – e per salvaguardare la sostenibilità fiscale». Il Tesoro nota tuttavia che la Bce «non è intervenuta unilateralmente sui mercati valutari dal 2001». Viene chiesta prudenza per migliorare la fiducia degli investitori globali.
Politica interna
Venti di crisi sul governo. Le preoccupazioni sulla tenuta del governo, lo spread a 282 punti e, soprattutto, il recapito dell’annunciata lettera inviata al ministro Tria, in cui la commissione Ue chiede i dettagli sui «progressi insufficienti per rispettare i criteri del debito 2018» dell’Italia, hanno condizionato l’agenda del Quirinale, del presidente del Consiglio e dei due vicepremier. Con sole 48 ore per rispondere a Bruxelles, gli incontri al massimo livello si sono incastrati per tutta la giornata contrassegnata poi dalla preoccupazione della Presidenza della Repubblica per la tenuta dei conti pubblici. Il premier sale al Colle dopo aver visto separatamente i suoi vice, Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Entrambi evitano un vertice a tre. C’è una crisi da scongiurare e bisogna comprendere se ci sono le premesse per blindare la maggioranza gialloverde. Nessuno può dare assicurazioni. E allora Conte chiede chiarimenti. Da Salvini pretende «lealtà» e «pazienza». Il premier non ci gira troppo intorno. Non gli sono piaciute le uscite del leghista contro l’Europa mentre lui stava per prendere l’aereo che lo avrebbe portato a Bruxelles a discutere dei conti italiani. Conte vuole la massima legittimità, non «un premier ombra» che lo faccia sentire «commissariato». Conte ha dunque visto separatamente a Palazzo Chigi i due vicepremier: prima Salvini, e poi Di Maio. Il premier è sembrato «moderatamente» ottimista, fanno sapere dal Quirinale dopo il colloquio con Sergio Mattarella. E l’ottimismo, appunto, si ferma li, a quell’avverbio che rende tutte le preoccupazioni del capo del governo sul futuro a breve dell’esecutivo. Nella nota del presidente del Consiglio non c’è più traccia della certezza che si andrà avanti per quattro anni, «fino alla scadenza naturale» della legislatura. Si limita a parlare di un’agenda fitta di misure che impegnerà il governo «per il resto della legislatura». Conte conosce la prudenza delle parole, e non può avventurarsi oltre la conferma che le condizioni per andare avanti «potrebbero anche esserci». «Bene, bene, con Conte abbiamo parlato delle cose da fare», ha detto Salvini che poi alle 13 davanti ai suoi parlamentari ha dato la linea sul governo: «Noi vogliamo andare avanti per realizzare il programma, dipende dal M5S…». «Meno loquace Di Maio che ieri ha avuto altri grattacapi.
M5S: Di Maio accusa i suoi. “Ho anch’io una dignità. E invece, mi sono sentito dire di tutto”. Luigi Di Maio ammette la sconfitta: «È mia». Poi però accusa: «Ero solo. Solo a fare i comizi, solo nelle trasmissioni televisive». In terza fila, accanto a Manlio Di Stefano e Danilo Toninelli, Alessandro Di Battista lo guarda dritto negli occhi. Sa che sta parlando soprattutto a lui. Che non gli perdona il Sud America, il rifiuto di dare una mano alle Europee, le uscite scomposte quando tutto era perduto (quel «se cade il governo dopo le Europee, io mi candido»). C’è un tocco di perfidia politica nel far notare che ci sono due linee nel M5S e che se prevalesse quella di Alessandro Di Battista per il governo sarebbe la fine. Soprattutto se la dichiarazione porta la firma di Matteo Salvini, rilasciata sia ai leghisti riuniti sia al premier Conte durante il colloquio a Palazzo Chigi. È la consacrazione di un’alternativa alla docilità governista di Luigi Di Maio. L’affermazione di un dualismo che esplode proprio mentre il Movimento è in preda a un’isteria di dissenso e che ormai nessuno osa minimizzare. Ma Di Maio non ne può più e lo sfogo contro Di Battista che è stato raccolto a più riprese nella giornata di martedì, dopo l’infilata di ultimatum inflittegli dai parlamentari dopo la disfatta elettorale, è stato ben sintetizzato in un pugno di frasi del post pubblicato dal vicepremier grillino per annunciare la votazione online su di sé: «La vita, per ognuno di noi, è fatta di diritti e doveri. Non scappa nessuno. A differenza di alcuni, ma assieme a tanti anche di voi, sono sei anni che non mi fermo e credo di aver onorato sempre i miei doveri, rendendone conto a tutti gli iscritti e gli attivisti del M5S. Non mi sono mai risparmiato in nessuna campagna elettorale. Ce l’ho messa sempre tutta anche quando nessuno ci credeva… A me non frega nulla della poltrona – si sfoga – non sto attaccato al ruolo di capo politico, ci ho sempre messo la faccia e continuerò a mettercela. Molti pensano sia bello stare in prima linea, ma il punto è che quando va tutto bene e vinciamo il merito è di tutti, giustamente. Il problema è che se si perde, prendo schiaffi solo io».
Politica estera
Huawei fa causa al governo Usa. «Consigliamo agli Stati Uniti di non sottovalutare la capacità cinese di tutelare i propri interessi. Non dite che non vi abbiamo avvisati». Il tono dell’editoriale di ieri del Quotidiano del Popolo, voce del Partito comunista cinese, lascia intravedere pesanti contromisure in arrivo, nello scontro a tutto campo tra Washington e Pechino che continua a spaventare i mercati e a danneggiare gli investitori. Il braccio di ferro su Huawei è diventato, dopo i dazi, la seconda dimensione della guerra commerciale tra gli Stati Uniti di Donald Trump e la Cina. Pechino si è rivolta a un tribunale del Texas invocando l’incostituzionalità delle restrizioni imposte dal governo Usa al colosso tecnologico del Dragone. Il riferimento è al divieto stabilito dal National Defense Authorization Act, una legge sulla sicurezza nazionale che vieta ad agenzie federali e aziende che lavorano per il governo di servirsi di apparecchiature e tecnologie Huawei per ragioni di tutela della sicurezza. Divieto contro cui Huawei ha intentato una causa in Usa lo scorso 6 marzo asserendo che l’amministrazione Trump l’avrebbe «estromessa» dal mercato americano sulla base di un giudizio «sommario», senza possibilità di difesa. Per altro – sostiene – non celebrato dagli organismi giudiziari, pertanto «incostituzionale». L’udienza per la mozione si terrà il prossimo 19 settembre, rende noto Huawei che chiede al governo Usa di «interrompere la campagna sanzionatoria di Stato, perché non genera sicurezza informatica». Inoltre la Cina potrebbe bloccare l’export di terre rare verso gli Stati Uniti. Le terre rare, di cui il Paese è leader mondiale, sono un gruppo di 17 elementi chimici essenziali nelle produzioni tecnologiche avanzate, dall’elettronica di consumo alle apparecchiature militari. Pechino già in passato ha usato le terre rare come strumento di pressione in dispute diplomatiche. La prospettiva di un blocco all’export delle terre rare da settimane spinge al rialzo le quotazioni dei titoli delle aziende del settore.
Israele verso nuove elezioni. È da sempre il momento più difficile per la politica interna israeliana. Benjamin Netanyahu non è riuscito a chiudere le trattative per formare la coalizione, ha esaurito i 28 giorni e ha preferito riportare Israele in campagna elettorale piuttosto che lasciare al presidente Reuven Rivlin la possibilità di affidare il mandato a un altro leader politico. A 50 giorni dal voto, i deputati hanno deciso di auto-licenziarsi, non era mai successo nella storia del Paese che una legislatura durasse così poco, che le urne venissero aperte due volte nello stesso anno. La tempesta era in agguato da giorni. Dopo la festa per i risultati del 9 aprile, Netanyahu aveva iniziato i negoziati con i partiti che avrebbero dovuto sostenere il suo Likud. Il problema è che l’accordo raggiunto con i partiti ultra-religiosi è stato bocciato in maniera irremovibile dal partito laico-nazionalista “Israel Beitenu” di Avigdor Lieberman. Con i suoi 5 deputati Lieberman è indispensabile al Likud per avere una maggioranza alla Knesset. Ma il leader di origini russe si oppone alle concessioni fatte agli haredim, in particolare l’esenzione dal servizio militare per i giovani ultraortodossi. A loro volta gli ultraortodossi controllano 16 seggi e sono quindi decisivi per un’alleanza che elegga Netanyahu primo ministro. Per questo da giorni esponenti del Likud e la stampa a loro vicina avevano iniziato a martellare Lieberman in pubblico, accusandolo di tradimento degli interessi nazionali e di voler costringere il paese ad elezioni anticipate. L’opposizione accusa il primo ministro di aver spinto gli israeliani a nuove elezioni non necessarie solo per proteggersi. La data fissata è il 17 settembre, una ventina di giorni prima del faccia a faccia tra i legali del premier e il procuratore generale dello Stato, che a dicembre annuncerà l’incriminazione per corruzione.