Politica interna
Le scelte di Mattarella dopo le dimissioni. Il voto si allontana. Un faccia a faccia di 40 minuti che al Quirinale definiscono «tranquillo e calmo». Un confronto tra un Matteo Renzi concentrato su chi potrà succedergli al governo — magari lui stesso? — e un Sergio Mattarella con il pensiero ormai rivolto a come chiudere una crisi delicatissima e quasi al buio. Crisi che, quando il segretario generale del Colle Ugo Zampetti legge in diretta tv la formula di rito, con quel cenno al fatto che il capo dello Stato «si è riservato di decidere», non chiude ancora del tutto le chance di una continuità renziana a Palazzo Chigi.
Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella semina ottimismo. Vede possibili segnali di apertura per un governo di tutti o quasi. Del resto, il suo compito è provarci in ogni modo. Ma si lascia anche scappare un commento dal sapore amaro, forse più realistico: «C’è bisogno di molta lucidità e saggezza, il rischio è quello di imboccare una strada infelice». Ovvero, la strada del voto anticipato che lo costringerebbe a sciogliere le Camere in anticipo sulla scadenza naturale della legislatura. Da oggi pomeriggio comincia il gran consulto e tre sono, ora come ora, le ipotesi sulle quali Mattarella verificherà l’atteggiamento delle forze politiche. La prima soluzione da esplorare è il governo «di responsabilità nazionale» con tutti dentro, chiesto dal Pd, e che presuppone un larghissimo, e al momento assai difficile, sostegno. La seconda soluzione potrebbe essere Renzi stesso, attraverso una reinvestitura con un mandato bis o addirittura restando per un altro po’ al timone da dimissionario (e in questo caso potrebbe valere un analogo precedente di Monti). Terza soluzione un governo istituzionale, con un appoggio parlamentare che parta dall’attuale maggioranza magari allargabile, guidato da un premier scelto tra figure come Padoan, Gentiloni o Grasso, indispensabili per raccogliere il consenso necessario alla gestazione di una nuova legge elettorale. Tra domenica e lunedì si vedrà a quali conclusioni arriverà il presidente. Maria Teresa Meli, racconta sul Corriere della Sera che in serata, dopo la direzione e l’incontro con Mattarella, Renzi appare più rilassato. Non sembra nemmeno troppo preoccupato dell’operazione che Dario Franceschini, soprannominato Tarzan da quelli del Pd, per la facilità con cui salta di corrente in corrente, e Andrea Orlando stanno conducendo in queste ore. L’obiettivo? Duplice. Il primo presiederebbe il nuovo governo, il secondo contenderebbe a Renzi la segreteria. Renzi non appare turbato: «Voglio togliere a quelli del fronte del No ogni tipo di margine. Si inventassero un nome se sono in grado. Adesso Salvíni, che vuole le elezioni, deve dire con quale governo intende arrivarci. E i 5 Stelle, lo stesso. Dicono che bisogna andare alle urne? Spieghino come. Vogliono un governo istituzionale per andare al voto? E Forza Italia che intende fare? Vuole, chessò, un esecutivo Franceschini? Lo dica pubblicamente. Anche se magari non intendono sostenere nessun governo tutti devono spiegare come pensano di affrontare il percorso». Già, perché secondo Renzi «non può essere che solo il Pd si debba assumere responsabilità e oneri: noi siamo pronti e disponibili a tutto. Però non ci facciamo inchiodare così».
.
M5S, sull’Italicum parlamentari in rivolta. Beppe Grillo è costretto a dirlo ancora una volta. Il candidato premier del Movimento 5 stelle sarà scelto online. Il fondatore – che è stanco è non parteciperà alle consultazioni al Quirinale, anche perché lunedì e martedì ha uno spettacolo a Genova – interviene perché le acque del Movimento sono agitate. Grillo vuole stare il più possibile a Genova, nella sua villa di Sant Ilario, a costruire il suo show, e scenderà a Roma solo se sarà indispensabile. Un po’ come prima della vittoria a Roma e a Torino. Molto, ovviamente, dipenderà da quando si andrà a votare, perché se sarà nei primi mesi dell’anno, e il M5S resta favorito, Grillo sarà costretto a guidare la campagna elettorale per l’ultimo sforzo. Se invece i tempi del governo istituzionale, a cui i 5 Stelle non intendono partecipare, si allungheranno, Grillo potrebbe dedicarsi al suo spettacolo e magari far coincidere il tour con la sfida delle politiche, come avvenuto con le Europee del 2014. Ai vertici del M5S sanno che la scelta di Beppe potrebbe essere un rischio per tutti. Soprattutto ora, con il Movimento spaccato sul tema della leadership e senza meccanismi di competizione interna chiari. Le parole di Roberto Fico – il primo a dire dopo Luigi Di Maio che, se i 5 stelle vorranno, lui potrebbe candidarsi – hanno polarizzato i gruppi parlamentari. Così, ieri mattina in radio il senatore Vito Crimi si affrettava a dire: «Io sto con Luigi», mentre alla Camera un deputato come Andrea Colletti dichiarava: «Sono felice delle parole di Roberto. Cosa pretendevano? Il candidato unico?». Non dice solo questo, Colletti, che poche ore prima ha scritto un post su Facebook per disconoscere la linea imposta dal blog sulla legge elettorale. «Ritengo folle ragionare in questo modo perché ci metteremmo alla stregua dei politicanti che hanno approvato l’Italicum», è l’accusa lanciata ai vertici. «C’è un problema di metodo e uno di merito – spiega nella penombra della sala lettura di Montecitorio – che senso ha un’uscita del genere senza aspettare l’assemblea? E poi perché decidere di estendere l’Italicum al Senato, dopo averlo combattuto per tutto questo tempo? Come al solito, al nostro interno, c’è chi esagera con la tattica».
Politica estera
Regeni, l’ultima beffa nessuna svolta nei documenti arrivati dal Cairo. La verità sull’omicidio di Giulio Regeni può attendere. Almeno per il regime di Al Sisi. La delegazione che per 36 ore torna a Roma per un’ammissione di indubbio valore politico ( quel ragazzo era un «portatore di pace», viene detto alla famiglia la sera di martedì ) non ha nessun asso da calare, nessuna sorprendente novità investigativa da consegnare alla Procura di Roma. Più modestamente, il procuratore generale egiziano Ahmed Nabil Sadek arricchisce, articolandolo, il canovaccio proposto ai nostri investigatori già nel settembre-scorso. Una storia che, all’osso, racconta come nella fine di Regeni abbia pesato la delazione interessata e miserabile di Mohammed Abdallah, ex capo del sindacato degli ambulanti, biforcuto “amico” di Giulio fino al giorno in cui non ha deciso di venderlo come agente provocatore alla polizia e al servizio segreto civile egiziano. E come il ricercatore fosse nel cono di attenzione degli apparati del Regime, polizia e Servizi, ancora il 22 gennaio, tre giorni prima di essere sequestrato. È qualcosa, si dirà. Non esattamente una assoluta novità. E tuttavia – è questa l’unica vera sorpresa di fronte alla quale si sono trovati ieri il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, e il sostituto Sergio Colaiocco – si scopre ora che ciò che gli egiziani vengono a raccontare a Roma in una mattina di dicembre è, né più e né meno, quanto sapevano almeno dal 10 maggio scorso. Quando il nostro Mohammed Abdallah decide di mettere a verbale con il procuratore generale del Cairo la storia che leggerete. Insomma, oggi si può dire che per sette mesi il Regime ha taciuto ciò che ha raccontato solo ieri. Per giunta, lo ha taciuto in settembre, nell’ultima trasferta romana dei magistrati egiziani, quando, per l’appunto, per la prima volta vennero affacciati il nome di Abdallah e il suo ruolo nella morte di Giulio. Intanto sul Manifesto Tommaso di Francesco attacca Renzi ricordandogli “la sua grave responsabilità: quella di essere stato il leader occidentale ad avere sdoganato Al Sisi. Appena un anno dopo il suo sanguinoso colpo di stato, definito dallo scrittore Orhan Pamuk (come quello di Pinochet). Renzi con passione prima andò nell’agosto 2014 al Cairo, intessendo una fitta rete di affari, e poi tre mesi dopo accolse in Italia il dittatore con tutti gli onori come “il leader emergente del Medio Oriente la cui battaglia «era quella dell’Italia”.
«Time» sceglie Donald Trump “persona dell’anno”. La scelta non sorprende: per Time la «persona dell’anno» è Donald Trump. Fa discutere, invece, il titolo pensato dal settimanale americano: «Presidente degli Stati “Divisi” d’America». Il primo commento è proprio quello dell’interessato. Ecco che cosa ha detto ieri in un’intervista al Today Show, trasmesso dalla Nbc: «Per me è un grande onore. Time è un giornale molto importante. Sono stato fortunato a comparire in copertina molte volte quest’anno e lo scorso anno». Nel 2015, in realtà, Trump si lamentò molto perché il magazine gli aveva preferito la cancelliera tedesca Angela Merkel. Nel 2013, invece, il tycoon non era stato inserito nella lista dei 100 personaggi più influenti e aveva reagito con una specie di anatema: «Time chiuderà presto, come Newsweek». Tutto cambiato, ora. Anche se quel riferimento agli «Stati “Divisi” d’America» non gli è piaciuto: «Io non ho diviso gli Stati Uniti. Certo ci sono adesso molte divisioni, ma stiamo lavorando per rimettere le cose insieme e avere un Paese guarito». Federico Rampini si chiede su Repubblica se con Trump la classe operaia ha il suo presidente. “Il venerdì schiaffeggia la Cina, nel weekend impedisce che una fabbrica finisca in Messico, dal lunedì al mercoledì dichiara guerra a Boeing per i costi dell’Air Force One e a Big Pharma per i rincari dei medicinali. Il populismo di Donald Trump comincia a preoccupare i capitalisti. Credevano che scherzasse, il tycoon della speculazione immobiliare riconvertitosi a beniamino dei colletti blu. Ma dopo che gli operai del Michigan e della Pennsylvania lo hanno portato alla Casa Bianca, lui sembra volerli ripagare. O forse è solo un gioco di ripicche contro quei top manager che non si allineano? Fa eccezione Big Oil: i petrolieri incassano una nomina preziosa, alla testa dell’agenzia per l’ambiente Trump sceglie Scott Pruit, “negazionista” che promette di smantellare le riforme di Obama sul cambiamento climatico. Martedì mattina usando il suo mezzo di comunicazione favorito, cioè Twitter, Trump apre il caso dell’ aereo presidenziale: «Il nuovo Air Force One costa troppo. 4 miliardi. Ordine cancellato!». Trema la Boeing che fabbrica il celebre velivolo, simbolo della potenza americana nel mondo.
Economia e finanza
La manovra da 27 miliardi è legge. La prima legge di Bilancio,valida per il triennio 2017-2019 e chiamata a sostituire da quest’anno la legge di Stabilità, può vantare più di un record: il più rapido iter parlamentare di approvazione; un via libera con una “fiducia tecnica” con esame “monocamerale”, solo quello della Camera. Il Senato, ieri , si è limitato a ratificare il testo licenziato da Montecitorio prima del referendum costituzionale. Un passaggio che ha regalato al Governo Renzi dimissionario la sua ultima fiducia, con 173 voti favorevoli e 108 contrari, seguita dal «sì» definitivo sull’intero provvedimento (tabelle incluse) con una maggioranza che si è ridotta a 166 voti inclusi quelli dei 13 senatori “verdiniani” contro 70 no e un astenuto. Si tratta di una manovra da 27 miliardi di euro e che si poggia su tre pilastri: gli investimenti pubblici e privati, questi ultimi immediatamente operativi a partire dal 1 gennaio con la proroga del super ammortamento al 140% e i nuovi iperammortamenti al 250% pe ri beni tecnologici di “Industria 4.0”, le pensioni e gli interventi per la famiglia, a partire dal discusso bonus bebè, quello pergli asili e la “no tax area” per gli studenti universitari. A questi si aggiungono alcune misure di peso sul fisco a partire dalla sterilizzazione della clausola di salvaguardia per il 2017 con gli aumenti dell’Iva per oltre 15miliardi, la piena operatività del taglio di 3,5 punti dell’fires (dal 27,5 al 24%),l’arrivo dell’Iri con aliquota al 24%per le piccole imprese e il regime di cassa per le ditte in contabilità semplificata Sul fronte della lotta all’evasione II Governo uscente si è giocato anche la carta della lotteria dello scontrino oltre alla tracciabilità delle spese dei servizi per i condomini.
Ora si attende l’esame europeo rinviato al prossimo marzo, con diversi nodi che andranno sciolti da qui ai prossimi mesi. Sotto la lente di Bruxelles le coperture, anche in relazione agli stanziamenti previsti per il contratto del pubblico impiego (5 miliardi nel triennio), il mancato rispetto della «regola del debito», l’andamento del deficit strutturale, in aumento dello 0,4% e non in calo dello 0,6% come chiesto dalla Commissione Ue. In sostanza, si tratta ora di far fronte a quella che Bruxelles giudica una «deviazione significativa» rispetto alla disciplina di bilancio europea. Misure aggiuntive, come indicato dall’Eurogruppo di lunedì scorso, sono in campo anche se per ora non se ne quantifica l’entità. Sarà probabilmente necessario mettere mano ai conti pubblici nel corso del 2017, per avvicinarli alle richieste europee, e monitorare l’andamento delle principali variabili di finanza pubblica. Lo rileva l’Ufficio parlamentare di Bilancio: i rischi sono connessi all’«assunzione di impegni permanenti dal lato delle spese correnti», (in particolare per quel che riguardapensioni e pubblico impiego) «compensati solo in parte da entrate permanenti e certe». Con incertezze che si proiettano nel 2018 e 2019.
“Patto per la fabbrica” per rilanciare gli investimenti. In una fase di grave crisi politica e sociale l’incontro avvenuto ieri con i rappresentanti dei sindacati confederali sul “Patto per la fabbrica” lanciato da Confindustria si è concluso positivamente, con una nota congiunta che in pratica può dar vita a un “Progetto-Paese” che valga a rilanciare l’economia e l’occupazione, e a contrastare perciò nuove diseguaglianze e povertà. Anche i sindacati pongono infatti la “questione industriale” al centro di un impegno comune nell’interesse della collettività. D’altronde la sfida cruciale, imposta dalla quarta rivoluzione industriale con l’avvento del digitale, richiede il coinvolgimento di tutte le componenti, a vario titolo, del sistema produttivo per il conseguimento di maggiori livelli di produttività e competitività. E ciò in base a un modello di gestione della fabbrica, segnato dall’intreccio fra partecipazione e responsabilizzazione, quale leva indispensabile per la promozione e il consolidamento di un’industria ad alta intensità di investimenti e alto valore aggiunto, in sintonia con le recenti dinamiche della globalizzazione. L’industria manifatturiera costituisce tuttora la spina dorsale della nostra economia, in quanto contribuisce al 16 per cento del Pil e genera molteplici effetti indotti in altri comparti. Ma, per mantenere questo suo peso specifico e il secondo posto in Europa nelle esportazioni, la chiave di volta è una politica industriale per fattori di sviluppo abilitanti alla produzione 4.0 e coerenti con una valida strategia di medio periodo. A tal fine risulta indispensabile costruire, innanzitutto, un nuovo genere di rapporti fra imprese e sindacati che abbia quale obiettivo, nell’interesse comune e con una visione al futuro di un Paese più moderno e coeso, la trasformazione della fabbrica in un laboratorio di risorse e competenze che renda possibile un salto di qualità di ordine strutturale e culturale in linea con un complesso di innovazioni che stanno cambiando sia i modi di organizzare il lavoro e di produrre, sia i modi di comunicare e agire sui mercati.
Sul fronte occupazione c’è intanto da registrare un leggero calo del numero degli occupati, meno 14 mila persone, – 0,1% rispetto al trimestre precedente. E la sostanziale stabilità del tasso di disoccupazione, fermo all’11,6%. Fin qui il dato nudo e crudo fotografato dall’Istat nel terzo trimestre di quest’anno. Spacchettando i numeri della rilevazione, però, salta all’occhio la linea di frattura generazionale che attraversa il mercato del lavoro italiano e il Paese in generale. La disoccupazione giovanile sale al 37,5% dal 36,8% del trimestre precedente. Considerando la fascia d’età tra i 25 e i 34 anni, ci sono 33 mila persone al lavoro in meno.