Di Gino Doria*

Eppure il motivo nuovo su Piedigrotta c’è. Lo trovò, quando,. circa mezzo secolo fa, scriveva il suo Napoli a occhio nudo, il buon Renato Fucini, scrittore eccellente, quantunque toscano, or è poco mancato ai vivi. Nessuno l’ha mai ripreso – quel motivo – e può sembrare oggi nuovissimo. Converrò con voi che parlare di tristezza, di malinconia, di tragicità, a proposito della festa di Piedigrotta, può apparire a prima vista un nonsenso, un granchio colossale preso dallo scrittore che abbia la pretesa di considerare la festa sotto un nuovo aspetto. Giacché Piedigrotta, nell’eterno cliché dei canzonieri e dei cronisti, è mai sempre la esplosione della massima gioia popolare, la efflorescenza tumultuosamente magnifica della prepotente voluttà di vivere e di gioire di questo popolo baccanalesco, spagnolesco, barbaresco.

Ma se considerate bene — come io ho considerato — l’intima essenza di questa maggior festa napoletana, finirete con lo scorgervi — come io vi ho scorto — un fondo di pungente tristezza, e un lievito di tragicità, sia pure orgiasticamente demoniaca, un senso accorante — e anche un po’ repugnante —— di lugubre  malinconia.

Non si parla, benvero, di quella malinconia tutta letteraria e arbitraria, e giulebbosamente stomachevole, che ha in così malo modo, e così irreparabile, inquinato le pure fonti della nostra poesia popolare. L’anima sognante, malinconica, lirica, nostalgica, fatalistica, e altro e altro, del popolo napoletano, è pura e fantasiosa leggenda creata dai canzonieri del secolo XIX posteriori alle «’nferte» di Giulio Genoino. Ma leggete i poeti dialettali del Seicento e ivi troverete — in un dialetto, ahimé, completamente scomparso — la vera raffigurazione plastica della natura napoletana. La quale tende all’allegrezza piuttosto che alla tristezza, alla realtà piuttosto che al sogno: e solo qualche atteggiamento contemplativo, che sembra meditazione mentre è puro e semplice torpore dei sensi e dello spirito, ha favoreggiato tanto la leggenda dell’anima sognatrice partenopea; quanto quell’altra, appoggiata dall’autorità (ma assai relativa in questo campo) del Carducci, secondo la quale l’ingegno napoletano renderebbe naturalmente e peculiarmente alla  speculazione.

Né si venga fuori con Fenesta a: lucine o con Salvatore di Giacomo. La prima non è una canzone napoletana; e una popolarissima frase di Bellini applicata, Dio sa da quale copista, a un rifacimento napoletano della  leggenda della baronessa di Carini. Non diversamente vediamo oggi dei fox-tratt diventare la musica di canti napoletani. E il lirismo dell’altro, nella parte più soggettiva e più intimamente personale della sua altissima opera poetica, è cosa che esula completamente dall’ambito della poesia dialettale, in quanto la si consideri come espressione dell’anima collettiva di una data agglomerazione etnica.

Rispettabili, quindi, i nostri moderni canzonieri, se ci permettono di considerare la loro produzione (del resto tante spanne al disotto di quella digiacomiana) come del tutto indipendente dalle condizioni ambientali e dalle caratteristiche formali e spirituali della razza. Vaneggiano, invece, quando pretendono (come sembra che pretendano) di rappresentare l’espressione autentica e genuina della modesta e niente affatto  complicata psicologia del popolo napoletano.

Eh si! Ve lo figurate voi un buon napoletano che s’abbraccia la chitarra; e piangono, lui e la chitarra insieme? Ma quel napoletano ha bisogno di una bella fetta di mellone: con la quale «mangia, beve, e si lava la faccia»! Ora, se questo senso di disperata malinconia noi vogliamo negare alla poesia e al canto napoletano, allor che siano emanazione diretta dello spirito popolano, perché dovremmo proprio cercarlo nella festa che dei versi e della musica popolareschi è la summa? Ecco. Prima di tutto Piedigrotta non ha nulla di comune con le canzoni, così come le canzoni non sono né determinanti Piedigrotta né da Piedigrotta determinate. Oggi, mutati i tempi e mutati i costumi — non sappiamo se in meglio o in peggio — tutta quanta la produzione canzoniera, anche quella concepita e nata, mettiamo, in febbraio, si raccoglie, come sotto una etichetta valorizzatrice, sotto il nome fatidico di Piedigrotta. Ma, in realtà, Piedigrotta è tanto lontana dalla canzone quanto la terra dal sole.

Bisogna ricorrere a Montevergine, a questa genuina manifestazione di gioia popolare, per trovare, nei suoi «canti a figliola», l’intima connessione tra la festa e il canto. Del resto Montevergine deve servirci per molte altre rif‌lessioni comparative; come potrebbero servirci la festa dei quattro altari, con la sua caratteristica  floreale, e persino quella dei gigli di Nola, anche se in codesta il furore mistico assuma forme di primitiva bestialità.

È forse il sentimento religioso che dà alle feste di Montevergine, di Torre, di Nola una più sana e serena gaiezza? Mentre in quella di Piedigrotta trionfa, a dispetto della venerata Madonna, la ereditarietà delle antiche feste pagane? Mai più! Il senso tragico del baccanale, che si va preparando per questa notte, entro e fuori la grotta, trae la sua origine sopra tutto da una questione di orario.

La festa di Piedigrotta è prevalentemente notturna: ecco tutto. Là dove il mare, il sole, la luce, i colori vivi del giorno avrebbero potuto portare la gioia serena e smisurata delle grandi feste collettive all’aria aperta, la notte maligna e malinconica getta il suo velo di mistero, propizio a fomentare i più torbidi istinti della plebe.

Oh il terrore di tutti quei visi lividi, più lividi ancora sotto la gelida carezza dell’acetilene: di tutte quelle gote tese, come per una inesorabile pena, a soffiare nei barbari stromenti! A volte par di trovarsi in una immensa vetreria, con mille e mille «soffiatori».

E poi la notte favorisce l’intervento di tutta la più miserabile plebe, che la implacabile luce del giorno, denunziatrice di ogni miseria, avrebbe ricacciata nella metifica e impenetrabile oscurità delle sue tane. Dalle case trogloditiche delle Fontanelle, dalle losche capanne del Pascone, dalle grotte tufacee di Posillipo, dagli antri puzzolenti del Pendino e di Porto, dagli accampamenti africani della Marina erompe, con i suoi stracci, che non sono neanche pittoreschi, con il suo fetore di branchi di caproni, la tremenda Corte dei Miracoli della più bassa plebe napoletana. A Piedigrotta un amatore di ricordi storici potrebbe forse ritrovare, immutata dopo cento e più anni, la Santa Fede. E questa repugnante folla, che non può esibirsi alle feste diurne, vergognosa della sua incurabile miseria, solo a Piedigrotta trova il terreno propizio allo sfogo del suo istinto festaiuolo.

A Montevergine troverete lo spiegamento di tutto lo sfarzo plebeo nella ricchezza carnevalesca degli equipaggi, negli ori e nelle toilette; delle «maeste»: a Piedigrotta il trionfo degli stracci, che predominano prepotentemente, che impongono, senza la timidezza della povertà che altrove si occulterebbe, la tonalità fosca della loro tragica miseria.

E tutto questo è allegro?

Ma Piedigrotta, proprio per tutto questo, è la rivelazione annuale della secolare irrimediabile tragedia del popolo napoletano. E se vi sembra un paradosso, viva la verità dei paradossi!

*Del colore locale, 1922