PREMESSA
Le complesse vicende che videro le sette carboniche e massoniche al centro dei dibattiti della storiografia risorgimentale, a partire dal XIX secolo, trovano qui un tentativo di aggiungere un piccolo tassello a domande che ancora oggi sono senza risposta.
Rileggendo le vicende del noto patriota giacobino Filippo Buonarroti, che con Mazzini collaborò in un’ottica di confronto e scontro,[i] possiamo annotare diverse situazioni che costruiscono spazi ancora dinamici della nostra storia del XIX secolo. Un momento decisivo di questo confronto tra le sette, che culminò nell’episodio dell’invasione della Savoia nel 1831, a seguito delle vicende politiche francesi del 1830, ci pone nella condizione di riconsiderare alcuni episodi noti e meno noti, anche successivi alla vicenda specifica presa in esame. Dalle lucide osservazioni dello storico Armando Saitta trarrò motivo di analisi, grazie a documenti rinvenuti recentemente.
1831: coinvolgimenti di alcune società segrete negli Stati della Penisola
Scrive Giuseppe Leti i Carboneria e Massoneria nel Risorgimento italiano: “ Fra le associazioni [segrete della penisola] più importanti si annovera la Guelfa, le cui origini sono in verità alquanto incerte e confuse. Il Sòriga la ritiene derivata dalla Adelfia del Piemonte, questa a sua volta prodotta dalla società francese antinapoleonica della Filadelfia, altrimenti detta Ordine Delfico. Si estese rapidamente dalle provincie nordiche agli Stati della Chiesa. Tanto i filadelfi ripetevano origini massoniche, che nel 1862 esisteva ancora a Palermo una Loggia intitolata “I Filadelfi”.[ii] Scrisse Felice Foresti[iii] che il guelfismo di fronte alla Carboneria rappresentò – fermo l’intento – la parte mentale che occorre a collaborare con quella materiale. Alessandro Luzio[iv] pubblicò dei saggi della Costituzione Guelfa da lui trovata in una busta di atti di governo all’archivio di Stato di Milano, e procurata al governo austriaco nell’autunno del 1916 da due suoi spioni in seguito ad un loro viaggio esplorativo in Italia. Di essa, del dizionario, del catechismo, dei segni della Guelfa, si interessò riproducendoli lo Spadoni in Rassegna Storica del Risorgimento[v]ed elevando il dubbio sulla loro autenticità, o almeno sulla loro fedeltà. E noi aderiamo a questo dubbio dello Spadoni, sia per certe caratteristiche della costituzione e del catechismo; sia perché, avendo sott’occhi statuto e catechismi d’altre società segrete, le primissime, ci pare di ravvisare in quelli attribuiti alla Guelfa una specie di rafforzamento degli altri. Nondimeno, non tutto, certo, deve essere creazione dei delatori. Secondo quella costituzione l’associazione fu costituita a Roma il 15 di ottobre del 1813 da “buoni italiani mossi dal sentimento di verace libertà, e desiderosi di recar soccorso alla comune madre, e di toglierla alle catene sotto il cui peso geme da tanti secoli”. Lo scopo è dunque comune a quello della Massoneria e della Carboneria. L’art. 3 della costituzione dichiara di porre la Guelfa “sotto la valevolissima protezione dell’Inghilterra, avendone [questa] date anche ultimamente non equivoche prove, nulla potendo [la società] ormai più sperare in un governo e in una nazione [evidentemente la Francia] che i mali stessi le ha raddoppiati, poscia averle promesso indipendente esistenza; con che mostra dividere il pensiero e seguire le tendenze del settarismo italico in genere, e si accosta alla massoneria scozzese che reclama le proprie origini anglosassoni[…]. Era capo del guelfismo in quell’epoca il principe Hercolani di Bologna, nel cui palazzo, nell’ottobre del 1817, si radunò il congresso dei deputati delle società segrete provinciali donde uscì la costituzione latina, che riformò la carboneria. Il guelfismo, ad attestazione di Atto Vannucci, intesseva allora fila cospiratorie cogli Adelfi del Piemonte e di Parma, e coi Federati della Lombardia[…]. Morto il 30 novembre del 1830 Pio VIII, si tentò a Roma d’instaurare un governo italiano con a capo un napoleonide, chè i napoleonidi, non ancora interamente convinti d’aver fatto il loro tempo, speravano ancora in qualche successo. Mancò la sollevazione disposta pel 10 di dicembre di quell’anno, e molti furono ristretti in carcere e processati, fra cui: Vito Fedeli di Recanati, mastro di casa del principe di Musignano Carlo Bonaparte figlio di Luciano, Giuseppe Cannonieri di Modena e il conte Domenico Troili di Macerata, al quale fu scoverta una corrispondenza col conte Filippo Camerata Passionei: nomi che sembrano l’eco delle Vendite carboniche marchigiane[…]. Le dimostrazioni al governo si ripeterono sul principio di febbraio del 1831; ma in fondo non s’ebbero che la fuga di molti, l’allontanamento coatto di Luigi Napoleone che fu poi l’Imperatore Napoleone III, e di suo fratello.[vi]
“ L’emigrazione politica nel Risorgimento ebbe inizio in quegli anni”,- scrive lo storico Galante Garrone – “con la collaborazione alle riviste e la frequentazione dei circoli più illuminati, una preziosa opera di penetrazione negli ambienti culturali e di indiretta difesa della causa italiana; e furono apprestati i mezzi più autorevoli ed efficaci per agire sull’opinione pubblica, e sulla diplomazia e gli uomini di Governo. Basti pensare, per fare un unico nome, ad Antonio Panizzi. Ma la storia interna di quel primo gruppo di nostri emigrati è ancora in gran parte da fare. E’ da studiare, ad esempio, come sorsero o si rafforzarono, in taluni dei nostri emigrati, le idee federalistiche, suggerite sull’esempio degli Stati Uniti. E poi, sarebbero da analizzare, nelle loro scaturigini prossime e remote, le irriducibili ripugnanze di taluni esuli per qualche aspetto della vita politica e sociale inglese. [Rivedere cioè come ad esempio Panizzi fosse ben integrato contro chi non s’era voluto integrare]. Abbiamo or ora visto lo stesso Santarosa farsi eco di alcune di queste critiche, e darci atto che moltissimi andavano allora “blaterando” contro l’aristocrazia inglese (14 giugno 1824 – Santarosa scriveva all’unico Provana: “Credo tuttavia di conoscere abbastanza la costituzione della società inglese per poterti dire senza taccia di temerità che essa ha una saldezza incredibile, e che assicura all’uomo una porzione di libertà e uno sviluppa mento delle sue facoltà, maggiore che negli altri Stati d’Europa. Stolta cosa blaterare contro l’aristocrazia inglese, benché qui si faccia da uno sterminato numero di persone. Un’aristocrazia che è sottomessa alle leggi, e alla quale può sorgere agevolmente chiunque per l’industria propria o dei suoi si fa ricco, è un elemento necessario di una nazione grande e ricchissima, né può mai dirsi trista a ragione[…]”.[vii]– Questa avversione era particolarmente viva negli esuli del continente, rimasti fedeli all’egualitarismo giacobino; ma anche tra i nostri emigrati in Inghilterra né serpeggiava qualche residuo. E si dovrebbero inoltre distinguere con cura uno dall’altro i diversi comitati che si formarono in questi anni e cogliere le ragioni politiche, e forse anche di casta, di queste distinzioni, e dei contrasti e sospetti reciproci. Gli importanti documenti pubblicati dal Patetta e dalla Wicks debbono ancora essere utilizzati a questo scopo. E infine sono ancora da illuminare i rapporti di natura politica, e in certi casi perfino cospirativa, con alcuni inglesi di idee avanzate. Tipico è il caso del Bowring, che non fu solo il produttore e il consigliere, ma ebbe una parte attiva nei rapporti clandestini con gli esuli del Continente. In Belgio, da un lato filobuonarrotiani, gravitanti intorno all’ormai vecchio giacobino toscano, ma sempre sulla breccia, ed anzi, dal suo romitaggio di Bruxelles, più gagliardo, e intraprendente che mai. Sono anni in cui Filippo Buonarroti riorganizzava su basi nuove la vita settaria in Europa, come lo storico Armando Saitta, ribadiamolo, ha acutamente dimostrato. Dall’altro lato sempre in Belgio, presso il castello di Gaesbeeck, il fruppo degli Arconati, con Arrivabene, Quetelet, esuli italiani e liberali francesi entusiasti di Cousin e di Guizot, uomini di cultura, aristocratici e borghesi in viaggio per l’Europa, ardenti seguaci del liberalismo del “Globe”.
Lo storico Galante Garrone così prosegue[viii]: “Attorno a Giuseppe Mazzini troviamo intorno al 1830-31 numerosi patrioti emigrati. Nella profluvie di scritti rivoluzionari che questi cercavano di far penetrare e di diffondere in Italia merita una particolare attenzione un rarissimo opuscolo, l’Invito ai patrioti italiani, così datato: “Dalle frontiere dell’Italia, settembre 1830”. Difficile l’attribuzione della paternità dell’opuscolo, ma interessanti i contenuti. “L’Invito” scrive: “Grandi circostanze che non esistevano mai prima d’ora! Adesso è il momento che gli Italiani dalle Alpi all’Etna metteranno mano a promuovere ed effettuare una insurrezione in parecchi degli Stati Italiani indipendenti dall’Austria, e se è possibile simultaneamente nelle Provincie napoletane, in Sicilia, in Piemonte e negli Stati Pontifici [non è menzionato il piccolo Ducato di Lucca, che viceversa dovette avere, come avrò modo di definire, un suo ruolo”. Grande in quel periodo l’attesa di una conflagrazione europea. Chi era fervente repubblicano non poteva certamente sostenere la possibilità ventilata della concessione di una Costituzione da parte di un qualche Sovrano della Penisola! “L’Invito” perciò proseguì: “Tocca ai Principi sacrificarsi al trionfo della libertà!”. Importante, nell’opuscolo, la presa d’atto della promozione dell’Unità Nazionale. La terminologia usata ricorda quella che verrà ripresa più di un secolo dopo nelle vicende d’Italia!
“Si stabiliscano dei centri segreti di frontiera, diversi depositi di armi, di munizioni, e di denaro in diversi luoghi della frontiera stessa, per favorire sia la formazione dei corpi dei Partigiani interni sulle montagne, sia l’organizzazione di corpi regolari destinati a fare irruzione nei punti opportuni d’Italia […]”. L’”Invito” è di Bianco di Saint Joriot o di Giuseppe Mazzini?
Tutto questo tende a dimostrare come il programma di una guerra per bande o di partigiani, caldeggiata sia da Bianco che da Mazzini, si fosse diffusa nelle file della nostra emigrazione politica. E, screzi a parte col vecchio rivoluzionario Buonarroti, la volontà di fare sul serio che il vecchio Maestro non aveva mai smesso d’inseguire, si era fatta un’autentica minaccia per gli Asburgo.
Questo opuscolo ebbe larga penetrazione europea e si propose di regolamentare ante litteram i rapporti tra Stato e Chiesa: “Si attireranno” – prosegue – “alla causa nazionale il più gran numero possibile di Ministri del culto, acciò cooperino allo stabilimento della libertà religiosa, a restituire alla semplicità dei primi tempi la Chiesa […]. Gli ecclesiastici liberali serviranno a procurare un clero che cooperi con saggezza alla causa pubblica, e concorra a mettere sotto l’amministrazione dei Delegati della Nazione civili ed ecclesiastici i beni delle comunità religiose, e dei corpi monastici”. Insomma, una sorta di Clero nazionale.
Massoneria e società segrete in Piemonte: alcune riflessioni, alla luce della prima spedizione in Savoia del 24 febbraio 1831
“Una interpretazione del ruolo della Massoneria in epoca di Restaurazione vuole “una sorta di continuità tra il mondo liberomuratorio e quello settario, collegando la corrente massonica, che s’ispirava agli ideali degli illuminati di Baviera, ai gruppi settari. Secondo Carlo Francovich “In questa massoneria non solo sopravvivono i principi politici e i simboli dell’illuminismo di Weishaupt, ma anche la tecnica organizzativa, il gradualismo delle rivelazioni, il metodo di porre al candidato dei quesiti per vedere se è veramente adatto a comprendere le nuove verità, il mimetizzarsi con logge e riti tutt’altro che radicali, per stornare verso queste i candidati indegni e per confondere le idee della polizia”.
Anche se molto schematico e non privo d’inesattezze, il pensiero di Gaetano Salvemini riassume bene quest’interpretazione: “Nell’Italia settentrionale”, scrisse Salvemini, “caduto il regime napoleonico, la Massoneria ridiventò segreta, mettendosi anch’essa alla opposizione contro i [ix]governi restaurati. Essendo assai discreditati dal servilismo dimostrato nel periodo napoleonico, i massoni sentirono il bisogno di cambiare maschera: si chiamarono Federati, Adelfi, Sublimi Maestri Perfetti. Siccome la Carboneria, dopo il 1814, si era diffusa nel mezzogiorno verso il centro e il nord d’Italia, i massoni cercarono di confondersi con la Carboneria. Facevano credere d’essere carbonari e fondavano vendite carbonare; ma i maestri di queste vendite erano agenti della Massoneria, perciò verso il 1820 e il 1830, non è facile distinguere la Carboneria dalla Massoneria. Possiamo solo dire che nel Mezzogiorno d’Italia prevale la Carboneria; nell’Italia settentrionale prevale la Massoneria; e anche quando, nel nord, troviamo che si parla di vendite carbonare, queste sono quasi sempre fondate da massoni, i quali cercano di trasformare la Carboneria in una specie di lunga mano – come si dice in gergo massonico – della Massoneria. Gli affiliati dei gradi inferiori credevano di entrare nella Carboneria, e invece formavano i primi gradini dell’organizzazione massonica”.
L’Adelfia, in particolare, venne ricostituita nel 1818 come parte di una organizzazione cospirativa, creata a Ginevra da Filippo Buonarroti.
Proviamo a fare un salto di qualche anno ed andiamo al febbraio del 1831. In quel periodo proprio Buonarroti fonderà la società dei Militi Apofasimeni. Questa Società fu creata con l’ausilio del conte Carlo Bianco di Saint Jorioz.[x] . Si diffuse velocemente, soprattutto in Toscana. Il 19 febbraio 1831 la polizia di S. Casciano trovò presso il piemontese Felice Ansaldi le istruzioni della setta: rigorosamente unitarie e gradualistiche. Ma sono le Memorie storico-politiche dal 1820 al 1876 di Giovanni La Cecilia a farci da guida, seppur in modo non sempre provato, ai fatti ascritti.
La Cecilia, dopo aver parlato dell’esistenza in Corsica e in Francia di vari comitati di rifugiati italiani, asserisce che verso la metà del gennaio 1831 queste associazioni avrebbero dato vita a Parigi ad un Comitato centrale presieduto da Filippo Buonarroti e costituito dal conte Alessandro Porro Borromeo, dal conte Carlo Bianco, da paolo e Francesco Salfi ed avente come segretari l’avvocato Mantovani e lo stesso La Cecilia.[xi]
Questo stato maggiore dell’emigrazione italiana è costituito in massima parte da compromessi del 1821. Certo è che Buonarroti può contare sull’appoggio di Bianco, Pietro Mirri e fors’anche il Linati[xii].
Allo stato attuale della documentazione, tra le azioni della Giunta ricordate dal la Cecilia, risultano provate la diffusione di proclami rivoluzionari e il trattato concluso il 18 febbraio [1831] con La Fayette. Sulla questione savoiarda, delle riserve vanno infatti fatte a quanto scrive La Cecilia sul reale coinvolgimento del Buonarroti. Secondo La Cecilia il tutto venne realizzato col concorso diretto del Comitato presieduto da Buonarroti mentre lo stesso Buonarroti riferì che si trattò di “una grave e sfortunata impresa, tentata nella Savoia senza che il Direttorio ne sapesse nulla”. Certo, la fase preparatoria fu seguita dai vertici della carboneria franco-italiana, ossia La Fayette e Buonarroti.
Vediamo come stanno le cose. La verità è alquanto complessa. E’ indubbio che il Buonarroti abbia pensato ad un’azione di forza verso l’Italia, che avrebbe dovuto avere inizio dalla frontiera savoiarda; ma è altrettanto certo che la spedizione della Savoia quale fu ideata dal Pisani-Dossi e dal generale Regis [de Gifflenga], quale fu aiutata dai mestatori di Parigi (primo fra tutti il La Fayette) e alla quale il Guizot forniva dei fogli di via, soprattutto quale fu eseguita ad Annemasse e ad Etrembières sia una cosa totalmente e radicalmente diversa da quella che il Buonarroti andava progettando. Già un breve studio dello storicol Soriga su “La prima spedizione di Savoia e il cavaliere Carlo Pisani- Dossi, che mostrava come di essa i “principali fautori furono in prevalenza ricchi e titolati lombardi” ed osservava che di questa spedizione gli “addentellati interni Carlo Alberto non osò mai punire severamente, perché manifestazioni di un partito tutt’altro che ostile alla sua persona”, avrebbe dovuto mettere sull’avviso; ma la nostra tesi è ora avvalorata dal fatto che Buonarroti dichiara esplicitamente che “nessun ricco italiano benché sollecitato dié neppur un quattrino”, mentre è noto che già il 18 febbraio 1831 la Belgioioso aveva fatto pervenire al Pisani-Doss la somma di 35.000 lire austriache. Del resto, l’esplicito accenno di una lettera di Bellerio al De Meester del 15 febbraio 1831 toglie ogni dubbio in proposito: “Il Comitato o per meglio dire la Giunta liberatrice pare continuino a credersi alla testa della faccenda sebbene i patrioti dal di dentro abbiano preso l’iniziativa senza tener segreto (ciò che proverebbe che non riconoscono la sua supremazia)” e mostra che veramente l’azione del Direttorio liberatore venne scavalcata da alcune frazioni dell’esulato italiano. E’ facile individuarne i responsabili: già in parte una precedente lettera dello stesso Bellerio li aveva indicati contenendo essa queste parole: “Quanto al Comitato o compagnia San Marsan, nessuno di loro piglia più alcuna parte alla cosa almeno apparentemente. A Ginevra debb’essere il centro delle relazioni che si hanno col Piemonte, ma siccome Carignano debb’essere il perno di tutto ci ho poca o nessuna fede”. Ossia, il centro direttivo della spedizione risiede in quella frazione aristocratica dell’esulato del 1821, che resta fedele ad una piattaforma puramente e semplicemente costituzionale, ha i propri ros bonnets nei sopravviventi della Giunta torinese di dieci anni prima, come il canonico Marentini, e gode l’appoggio di larghe frazioni dell’esulato o aristocratico o moderato italiano anche in altri paesi (qualche altro significato potrebbe avere il viaggio nel cuore dell’inverno 1831 di Giovanni Arrivabene da Bruxelles a Ginevra per abboccarsi con Pellegrino Rossi[xiii] e l’arrivo a Grenoble e a Marsiglia dello stesso Rossi, che al dire di Benigno Bossi si era di questa spedizione della Savoia “immischiato con molto zelo, e ne conosceva e approvava tutti i dettagli”; questa frazione si serve come massa di manovra sia di elementi raccogliticci ( e uno di questi doveva essere il quasi mentecatto “generale e dittatore” Colli) sia dell’organizzazione settaria a base carbonara degli “indipendenti” del Pisani-Dossi. Ben poco sappiamo di quest’ultima setta, ma a fissarne il carattere basta la sempre vigile diffidenza che al riguardo mostra nel suo epistolario Giuseppe Mazzini: difatti, quel poco che se ne sa mostra come certe sue vaghe premesse repubblicane continuamente venissero inquinate con più robusti rivoli prima di costituzionalismo monarchico e poi di bonapartismo. Comunque, la spedizione di Savoia fu monarchica ed imperniata sul Carignano, e tale carattere implicitamente si rivela nella grande moderazione, rispetto ai proclami della Giunta liberatrice, di un proclama dei rifugiati piemontesi preparato per essere diffuso al momento dell’invasione.
“L’influsso dei Massoni nei moti del 1821 era stato scarsissimo” – così asserisce lo storico Alessandro Luzio[xiv]. La massoneria dopo i moti scompare del tutto: la polizia di Carlo Felice non riesce, malgrado tutte le possibili investigazioni ad accozzare verso il 1829 se non un magrissimo elenco di presunti Massoni tra cui appare una mezza dozzina di nomi osservabili, il Marchese Alfieri di Sostegno, padre e figlio(il maggiore), Cavour e parecchi gentiluomini addetti alla Casa di S. A. il Principe di Carignano, senza dire di molti funzionari governativi, la cui iscrizione risaliva ai tempi napoleonici, né potevano essere chiamati in colpa di un’antica labe ormai cancellata dalla loro successiva irreprensibile condotta. Un nuovo tentativo di galvanizzare la Massoneria nel 1831 a Torino, come sodalizio di “Cavalieri della Libertà” finì in un disastro morale dei più lacrimevoli. L’appello eloquente di qualche generoso a Carlo Felice perché rinsavisse, instaurando più civile e meno oppressivo Governo, restò soffocato dalle delazioni.
In quei primi anni trenta molta fu la fiducia dei patrioti di ogni colore che Casa Savoia potesse perorare la più generale causa nazionale. Scrive ancora Galante Garrone: “ notevole il mareggiare di contrastanti opinioni nella nostra emigrazione sul conto del Carignano e della monarchia sabauda;. le speranze, i rancori, i sospetti e le simpatie, come dice bene Mazzini.[xv]Basterà qui ricordare la lettera di Giacomo Durando a Carlo Felice, pubblicata per larghi estratti dai fogli francesi;, la lettera a Carlo Alberto di Ferdinando Dal Pozzo; gli appelli sottoscritti da molti esuli; il Catechismo Italiano di Giuseppe Pecchio, la fiducia dei carbonari marsigliesi nel Carignano, attestatici da un importante rapporto della spia Svegliati; le tenaci illusioni ci Sanmarzano; o, per quel che riguarda l’analogo caso di Ferdinando I, allora salito sul trono delle Due Sicilie, le aspettative di ogni sorta di emigrati napoletani, dal barone Poerio a la Cecilia, che da Bastia, nel 1831, aveva indirizzato al nuovo sovrano una lettera aperta.
Due religiosi amici in Torino ed un unico ideale: la patria
Loro legami con le logge?
Gioacchino De Agostini e Gioacchino Prosperi furono nel corso del XIX secolo al centro dei sommovimenti politici che interessarono la penisola: amicizia e collaborazione divennero per loro un binomio inscindibile. Si conobbero in Piemonte, quando entrambi insegnavano nei licei comunali di Rivarolo Canavese e Cuorgnè; furono giornalisti, scrittori e religiosi, devoti alla causa nazionale.
La docenza in vari collegi piemontesi permise a De Agostini di conoscere l’amico Gioacchino Prosperi. Questi, lucchese ed aristocratico, residente per diversi anni in Piemonte, frequentò la casa di Cesare d’Azeglio. Aveva conosciuto il marchese e la sua famiglia in Roma quando, studente in S. Andrea al Quirinale, divenne padre Gesuita nel 1815. Spese la sua lunga esistenza (è deceduto, come l’amico, nel 1873) tra Lucca, Roma e il Piemonte e durante gli anni quaranta del XIX secolo si prodigò come padre missionario in Corsica, unendo l’opera missionaria ad un più generale impegno politico. Subito dopo essere divenuto padre gesuita prosperi si trasferì in Piemonte, dove incrociò il suo destino a quello dell’amico professore. A Novara, nel periodo in cui fu rettore del collegio gesuita Prospero d’Azeglio (1822-1824) e immediatamente dopo insegnò grammatica superiore e lingua greca.[xvi] In quegli anni padre Prosperi aderì alle Amicizie cristiane del Marchese Cesare d’Azeglio, sul cui giornale “L’Amico d’Italia”, organo ufficiale delle Amicizie a Torino, egli collaborò. Da documenti reperiti presso i padri gesuiti in Bergamo, Prosperi non compare più registrato negli archivi a partire dal 1826. In effetti nel 1823 egli scrisse una lettera da Modena al Venerabile Pio Brunone Lanteri, lamentando forti contrasti col Generale gesuita Luigi Fortis, ma al contempo declamando un probabile rientro nell’Ordine.[xvii] Già nel 1827 egli però insegnava nel collegio comunale di Rivarolo canavese; perciò evidentemente la speranza di rientrare come padre gesuita venne meno.
I contrasti, con ogni probabilità, nacquero dalle variegate frequentazioni del religioso, che lo avvicinarono a Rosmini ed alla sua dottrina.
Avendo avuto contatti con membri di casa Savoia, fu incaricato di scrivere l’Ode di Lanzo in memoria di Carlo Felice, sovrano deceduto nel 1831, e di cui Prosperi dovette conoscere dall’interno le vicende, dal momento che durante il soggiorno romano conobbe il fratello del sovrano, ex sovrano a sua volta, divenuto gesuita dopo l’abdicazione: Carlo Emanuele IV Di Savoia.
La giovanile esperienza da padre gesuita nel Regno sabaudo lo segnò profondamente. In effetti non esiste l’assoluta certezza che egli abbia dismesso l’abito da gesuita poiché in diversi documenti durante il corso della sua esistenza il sacerdote fece precisi richiami al suo saio, piuttosto che all’essere gesuita e/o gesuitante; ed ancora ricordò il suo profondo legame con padre Boero e padre De Ravignan della Compagnia di Gesù, che contrappose come “sani di mente” a padre Matteo Liberatore e padre Melia, con cui non ebbe alcuna sintonia. L’ Ode che il religioso dedicò al sovrano Carlo Felice fu semplice nei toni, ma con connotazioni politiche non gradite, tanto che nel 1834 (stranamente tre anni dopo averla letta e pubblicata presso l’editore Marietti di Torino) egli venne espulso dal Piemonte, in settembre, per una frase incriminata dell’Ode. Potrebbe trattarsi dei riferimenti alla flotta sabauda in Genova, che Carlo Felice cercò durante la sua vita di potenziare per perseguire una politica mediterranea più marcata e che forse, in quel periodo, il nuovo re Carlo Alberto, chiusosi in un rigido conservatorismo, non voleva evidenziare. Si tratta però, in questo caso, solo di un’osservazione personale. Risulta che Prosperi, nel 1833, fece un viaggio a Parigi e rimase ammirato dalle vestigia napoleoniche, ma non conosciamo i risvolti di tale soggiorno.[xviii] La Gazzetta piemontese di Felice Romani proprio in quel periodo, nonostante la successiva espulsione, ce lo presenta attento rettore e encomiabile scrittore di Odi sacre in Rivarolo, insieme al professor De Agostini.[xix]
Per giunta nel 1834 il conte Filiberto Avogadro di Collobiano, scudiero personale della Regina Maria Cristina, commissionò al sacerdote Prosperi un’Ode, in occasione della festa patronale di S. Massimo in Agliè, in giugno, indirizzata dunque a Monsignor Losana, all’epoca arcivescovo di Biella.[xx] Singolare che lo scudiero della regina, non si preoccupasse delle inclinazioni politiche del religioso, da taluno ritenute gianseniste, e di cui egli fu, nel corso della sua lunga carriera ecclesiastica, ripetutamente accusato.
Ma è ancora più singolare, stando alle parole dello stesso Prosperi, che nel 1838 egli fosse presente in Torino a predicare la Quaresima.[xxi] Non sappiamo dunque se, dopo l’espulsione, De Agostini e l’amico si siano più visti in Torino: di certo mantennero i contatti ed ebbero comuni iniziative politiche.
Nel 1839 Prosperi infatti prese a fare, incaricato dal suo Duca, Carlo Lodovico di Borbone, previa autorizzazione del capo della polizia lucchese, Vincenti, che era di origine corsa, il missionario nell’Isola, in sintonia con l’ex collega, a cui dedicò, attraverso dieci lettere, quelle sue esperienze di predicatore.
Se analizziamo i contenuti di tali predicazioni, che si protrassero almeno sino al 1846, le troviamo assolutamente prive di contenuti sul piano religioso, mentre una loro disamina sul piano socio-politico può apparire più opportuna.
La Corsica e i miei viaggi in quell’Isola, resoconto missionario delle sue fatiche di predicatore, pubblicato a Bastia presso l’editore Fabiani nel 1844, è un testo che meglio di qualunque suo scritto ci introduce, tra le righe, in un clima politico incandescente, che richiama a tutti gli effetti non solo i trascorsi di padre Prosperi da padre gesuita ma in specifico un presente fatto di sotterfugi ed ambiguità politiche, in cui il bizzarro duca lucchese Carlo Lodovico di Borbone, il titubante Carlo Alberto Di Savoia e, più in generale, l’intero assetto politico peninsulare dovettero confrontarsi.
In quel periodo del professor Gioacchino De Agostini conosciamo gli spostamenti in Piemonte come docente. Egli fu nel 1827 professore di Rettorica nel Borgo di Lanzo; nel 1830 aRrivarolo Canavese, nel 1832 a Cuorgnè; nel 1838 ad Asti, nel 1839 a Biella; nel 1843 a Casale Monferrato, donde scenderà poi nel 1853 a Vercelli, ove dal 1860 al 1863 diresse il Liceo. Tali informazioni sono contenute nelle Memorie della baronessa Olimpia Savio, così come altri precisi riferimenti al professore vercellese. Anche presso la Fondazione Sella di Biella esiste un fascicolo a suo nome, che ne evidenzia sia gli spostamenti che la duratura amicizia con Quintino Sella. Non sappiamo se il futuro statista sia stato suo allievo, ma egli espresse verso il professore, peraltro ampiamente contraccambiato, un atteggiamento quasi filiale.
Nell’elogio funebre dedicato a De Agostini e scritto dall’amico Cesare Faccio, pubblicato sul giornale vercellese “ La Sesia”, di cui il Faccio fu sia fondatore che direttore, lo farebbe supporre.
Scrive lo storico Adriano Viarengo nella rivista “L’Acropoli”: “ Nelle segrete e spesso contraddittorie viste del re, dove si mescolano la paura della rivoluzione, l’odio per l’Austria e l’ambizione della conquista, c’era, però, anche una preoccupazione diversa. Nella sua mente di sovrano, ultraconscio di una sua missione, c’era il timore verso una certa frazione dell’aristocrazia subalpina, il cui più significativo esempio è Cavour. Carlo Alberto ben sapeva che anche costoro puntavano ad una costituzione. Non erano però i borghesucci di Torino e delle province. Erano uomini potenti, orgogliosi, con legami internazionali. Con loro – e sarà così – costituzione avrebbe significato anzi tutto predominio del Parlamento sulla corona e sempre meno spazio di manovra per il sovrano. Essi non amavano l’Austria ma ritenevano utopistiche guerre di liberazione dallo straniero delle terre italiane. Carlo Alberto guardava invece alla Lombardia, coglieva la convergenza che c’era tra il patriottismo, per quanto in fondo in fondo unitario e di matrice mazziniana, di gente come Valerio ed i suoi disegni di espansione. L’Austria era nemico comune. Di fronte alla prospettiva di riforme e di una politica estera antiaustriaca i radicali erano disposti – come vedremo – anche a posticipare le loro richieste costituzionali. Era poi importante per il re formarsi un partito in Lombardia. Qui molta parte dell’aristocrazia e della grande borghesia era già in qualche modo legato al Piemonte”.[xxii]
Ed ancora:“Attratta dal ruolo importante che l’aristocrazia ricopriva nella vita politica del Regno sardo, tanto più se paragonato a quello pressoché nullo che Vienna riservava alla nobiltà lombarda, quest’ultima guardava con interesse a Torino. Il dominio austriaco piaceva poco, in generale ai lombardi, basti pensare al famoso Marzo 1821 per ricordarcene. Certo, c’era chi, come Carlo Cattaneo non la pensava così, soprattutto nei confronti del Regno subalpino ma, appunto per questo, occorreva un partito filo sabaudo. Esigenza alla quale potevano contribuire proprio i radicali subalpini.” Aggiungerei ai radicali i cattolici liberali, in un’ottica di collaborazione.
“In questi anni gli entusiasmi neoguelfi non mancarono, anche se papa Gregorio XVI era un durissimo conservatore. Mazzini invano strillava che costoro pensavano ad un impossibile “Risorgimento d’Italia in Arcadia”.
Padre Prosperi appartenne, questo apprendiamo, dall’Ode dedicata all’Arcivescovo Losana nel 1834, alla celebre accademia romana. Lo stesso Mazzini aveva dunque ragione nel sottolineare la comunione tra alcuni cattolici liberali ed un romanticismo politico, proiettato più in un passato d’antico regime che non in dinamiche costituzionali tipiche dei paesi nord europei.
Quando venne espulso dal Piemonte, proprio in quel decisivo 1834, l’anno successivo all’allontanamento di Gioberti, era un Indipendente? Le vicende giobertiane, il legame di questi col generale Dabormida e la vicinanza di De Agostini a Dabormida, così come appare nei suoi giornali lo farebbero supporre.
Il Solmi nel pubblicare nel Risorgimento italiano del 1911 il primo costituto di Vincenzo Gioberti credette di poter sorvolare sulle deposizioni del caporale Emilio Zacchia di Sarzana, che giudicò irrilevanti, anzi piene di frivoli particolari, di “inezie”.[xxiii] Non parmi che ben si apponesse: lo si giudichi dal tenore delle testimonianze, conservate tra gli atti inquisitori ali contro l’avvocato Scovazzi (processi politici, cartella 6°, fascicolo secondo). Interrogato il 26 maggio 1833 dalle autorità militari inquirenti, lo Zacchia narrò di aver ricevuto a Torino, durante il suo soggiorno militare, le più fiorite cortesie del concittadino avvocato Pasquale Berghini. “Venne qui in cittadella a ritrovarmi, accompagnato da un certo don remaggi, gesuita, di un paese vicino al mio, conoscente del pari di nostra famiglia, e professore qui in Torino nel Collegio dei Gesuiti; mi consegnò qualche somma rimessagli per mio conto da mio padre…m’invitò ad andare a pranzare con lui quando voleva”. Durante una malattia “all’ospedale mi visitò più volte”, anche coll’avvocato Daziani “perché questi come parente dell’economo dell’ospedale mi raccomandasse”; per il periodo della convalescenza “Berghini mi disse di procurarmi un permesso e di passare ad abitare con lui (portici di Piazza Vittorio a mano manca, andando in giù, porta n. 10, piano 4°”. Così avvenne di fatto, sui primi di marzo. Vi stetti 18 giorni, 8 o 9 rimasi continuamente senza uscire”. E in questo lasso di tempo “ebbi l’occasione di conoscere Scovazzi, Oberti, il di lui fratello medico, l’avvocato Daziani, l’avvocato Bertolini, il teologo Gioberti, il fratello più giovane di due che sono padroni ed esercenti il Caffè S. Carlo, un sottotenente di artiglieria, di cui non so il nome, un avvocato Ricci o Roggi…genovese, che trovavasi quivi in un ufficio da dove sortendo in questa capitale sarebbe sortito sostanzialmente avvocato fiscale…”. “Udiì discorrendo lo scovazzi col Berghini, e movendo questioni sui fogli di Francia, ambidue dire che l’attuale Governo di Francia non poteva essere loro vantaggioso, che non poteva durare, che fino a tanto che non si fosse cambiato in Repubblica, il che non doveva andare a lungo, non avrebbero dessi potuto sperare rinforzo, poiché in tal caso li rifuggiti sarebbero discesi. Un tal discorso lo udii pure muovere questione qual Governo fosse più adatto; e udii lo Scovazzi e il teologo Gioberti manifestare che conveniva formare dell’Italia una Repubblica. Udii da Berghini e Bertolini che doveva preferirsi un Re costituzionale. Ciò che devo osservare si è che quando colà venivano alcuni dei sovradetti, tutti, all’eccezione dell’avvocato Scovazzi e del teologo Gioberti, domandavano al Berghini, ovvero allo Scovazzi, quando vi era, se vi fosse qualche cosa di nuovo, il che non dicevasi né dello Scovazzi, né del Gioberti, nell’introdursi in quella casa…Venuto un giorno il Gioberti a trovare il Berghini, dopo d’aver tra essi due tenuto le questioni di cui parlai di sopra, il Berghini chiamò al Gioberti nuove dal sottotenente Alberti, sapendo che era ammalato. Il Gioberti gli rispose essergli noto che andava meglio, ma che non si era mai recato a visitarlo, perché essendo in cittadella, non voleva recarvisi per non dar sospetto….Appena lo Zacchia potè uscire, fu invitato a frequentare le conversazioni serali in casa dei fratelli Oberti, dove avrebbe potuto distrarsi con qualche partita alle carte. “Vi ritrovai lo Scovazzi, il Bertolini, il Daziani, ed il teologo Monti…Vidi sempre sopra il tavoliere di quella camera ora uno ora tre fascicoli portanti per titolo “La giovane Italia”: tutte le sere udii che tanto da quelli da me non conosciuti, quanto da quelli da me nominati si dava lettura di quei fascicoli, leggendoli ora gli uni or gli altri. Udii leggersi degli squarci trattanti la tirannia del Pontefice, la morte di Menotti, l’elenco di quelli fatti incarcerare dal Papa, udii allora dirsi da tutti che sarebbe venuto il tempo in cui ne avrebbero preso la difesa, che anzi udii lo Scovazzi allora dire: io lo giuro. […]. “Da bel principio in cui mi trovai nella casa berghini…udiva [nominarsi la casa Gioberti, dicendo ora l’uno: io vado dal Gioberti,interrogandosi altri: tu vieni dal gioberti?Dirsi altri: ci vedremo da Gioberti.
D – Se sappia cosa si trattasse nelle conversazioni di casa Gioberti…R- Io giammai intervenni…né alcuno m’invitò. Io suppongo che si trattassero le stesse materie quali sentivo parlare nella casa Berghini e nella casa Oberti”.
D – Se tanto nella casa Berghini quanto nella casa oberti abbia udito spiegarsi qualche progetto e fissarne l’epoca.
R – Nulla udii di ciò nella casa Berghini, ma bensì trovandomi in conversazione nella casa Oberti coll’avvocato Scovazzi si diceva che qui in Torino non potesse ancora così presto succedere una sommossa, perché i Piemontesi non erano ancora un caso. Udii il medico Oberti dire che se fossero tutti come nel Canavese si sarebbe potuto fare un colpo anche questa primavera[1833]; replicarsi dall’avvocato Scovazzi che se tutti fossero stati come in Ivrea, si sarebbe potuto fare un colpo anche prima e nella primavera sarebbe stata stabilita una repubblica. In una delle ultime sere in cui andai alla conversazione della casa Oberti, vidi colà due signori seduti alla tavola: vi stava sulla tavola davanti i medesimi un mucchio di fascicoli, i quali saranno stati in numero di 10 e più, l’uno sopra l’altro coperti di carta gialla. Vidi sul primo di essi il titolo “Giovane Italia”; vidi che il più attempato di detti due individui donò all’avvocato Scovazzi un piccolo pacco contenente del denaro. Ciò rimettendo gli disse: in tal modo siamo pagati, gli altri furono già distribuiti tutti2. Erano sei o sette scudi: i due individui appartenevano al Canavese; l’uno di circa trent’anni, l’altro di ventiquattro.
Lo Zacchia proseguì riferendo che il generale Ramorino disponeva già di 8 mila rifugiati e lo scoppio non lontano della sommossa avrebbe segnato un sicuro trionfo repubblicano.[xxiv] Non mancava denaro…Se ne offerse al Dumaz, che accettò di essere iscritto alla Giovane Italia col nome di Tour d’Auvergne, per guadagnar de’ colleghi all’impresa…ben inteso, gli avevano dato non solo de’ fascicoli della Giovane Italia, ma anche un libello in versi francesi contro il principe di Carignano. Più gravi e più dirette contro il Gioberti furono le accuse del sottotenente Alberti: frequentatore delle conversazioni in casa del teologo, dove e questi e i suoi amici l’avevan più volte esortato a leggere almeno gli articoli letterari della Giovane Italia, gli avevano nettamente posta la questione se nel dì d’un conflitto armato tra il governo e rivoluzionari esso alberti avrebbe combattuto per o contro la buona causa. A rincalzare le deposizioni Zacchia-Alberti-Dumaz vennero le propalazioni del Pianavia; il quale avendo a Torino visitato il Berghini, riferiva quanto ne aveva appreso sulle forze settarie nella capitale (processi politici, cartella settima, fascicolo terzo8.
“Mi assicurò l’avvocato Berghini che erano al numero di cento, che v’erano cinque o sei religiosi molto buoni e che sperava fra pochi giorni di arrivare al numero di ottocento: dovendo tenersi un consiglio per mezzo del quale la setta massonica, che è pure in Torino, e quella degli Indipendenti, setta esistente in Svizzera, ma che pure si dirama in tutta l’Italia, conciliate varie differenze che esistevano fra di loro, si sarebbero riunite assieme e congiunte colla Giovane Italia. Non mi disse il Berghini in qual luogo dovesse tenersi questo concilio; mi disse però che avevano fatto sentire all’avvocato Girardenghi di intervenirvi, e l’epoca stabilita per l’esecuzione del medesimo poco a presso si è verso la fine d’aprile o sui primi di maggio ultimi, epoca in cui vidi l’avvocato Azario a Genova…
“Quando io fui in Torino si spedì dall’avvocato Berghini alla Giovane Italia un articolo di un religioso, Paolo Pallia, tendente a far conoscere quanto sia utile questa rivoluzione al bene della religione”. Il Pianavia non parla che dei capi a cui fu diretto da Ruffini. Cioè il Barberis, il Berghini, i fratelli Cantara mercanti in ferro, e il colonnello Battaillard.[xxv] Che doveva principiare la rivoluzione a Torino. Era costui così infervorato che “temendo d’essere scoperto” pensava di anticipare di 15 giorni, a detta di Agostino Ruffini, l’insurrezione. Delle condizioni di Torino si protestava poco informato l’altro propalatore, avvocato Girardenghi: e accennò solo che le cose della Giovane Italia erano rette principalmente dall’avvocato Giovanni Allegra. A suo credere “la società della Giovane Italia era la meno numerosa”: A quanto mi disse la più numerosa era quella dei Franchi Muratori. Vi era anche quella degli Indipendenti. Cioè, come spiegava ab initio, una società “di principio più moderato” [della Giovane Italia] retta da un comitato residente in Svizzera con a capo il Pisani. Più addentro d’ogni altro nella situazione del Piemonte s’appalesò Giovanni Re, che aveva su ciò conferito a Giovanni Ruffini. Mi diceva [egli scrisse] che a Torino chi trovavasi incaricato d’ogni faccenda fosse l’avvocato Allegra, dacché Azario aveva protestato di non volersene più immischiare.[xxvi] Gli rappresentavo che era una perdita per il partito, poiché quand’anche io nol conoscessi, pure l’avea sentito decantare come uomo di molti numeri. Soggiungeva Ruffini che Mazzini erasi procurata una commendatizia del conte Bianco, particolare amico dell’Azario, ma che tutto fu inutile non volendosi egli arrendere per verun conto. Anche Tinelli gli disse d’aver visti parecchi piemontesi sfiduciati per la divisione che pareva essere entrata nei partiti, e che conveniva andarvi al riparo, senza del che le cose avrebbero rovinato interamente…”. Gli amici lombardi diedero a me – continua Giovanni Del Re le sue delazioni – l’incarico di recarmi a Torino coll’avvocato Cappa di Garlasco per vedere se vi era modo a riunire i partiti discordi e quindi a farne relazione. Passai infatti a Torino la fine dello scorso marzo, e ci riunimmo dal Barberis. Eranvi meco l’avvocato Allegra, l’avvocato Berghini e l’avvocato Cappa. “La missione del Cappa era di invitare Badariotti ad unirsi in congresso per sentire le ragioni di dissidio che lo allontanavano dalla Giovane Italia. Non volle il Badariotti presentarsi, ed il Cappa diceva che era spaventato dalle massime del Mazzini e che era una pazzia lasciarsi condurre da quella testa frenetica in cosa di tanta importanza. Diceva Berghini ed io con lui che in questo eravamo d’accordo, ma che in sostanza il moto doveva essere interno e che non per altro cercavasi un colloquio che per mettersi d’accordo nelle massime e nel modo d’agire. Diceva Allegra: “E’ la viltà che lo allontana, perché crede vicino il pericolo”: e toccando anche d’Azario aggiungeva: “A San Salvario[xxvii] si conobbe chi aveva coraggio e chi no”. Potei raccogliere essere le cose affatto sul verde, poiché dicevano che era da poco tempo che travagliavano, e che però potevano contare sopra sei o sette individui nel militare, e sopra cinquanta o sessanta giovani animosi, ma di classi medie e senza mezzi; che però speravano di progredire ed avere dei risultati. “Mi scriveva Berghini di mandargli il piano di organizzazione provinciale e di procurargli il Tribuno di Lugano. Da ciò si arguisca cosa era il partito della Giovane Italia nella capitale ai primi di aprile…. “Tra le altre cose Allegra mi diceva: “Badariotti e i suoi colleghi aspettano la guerra e faranno poi da mezzani ai francesi. Per me giuro di battermi sotto qualunque vessillo, anziché aspettare la libertà dagli oltramontani”. Né mi fece il nome dei suoi colleghi….Scrivendo al Melegari il 17 agosto 1833 (I, 451) Mazzini confermava pienamente le propalazioni di Giovanni Re: “Esiste una coterie carbonica, che ha le reliquie del 1821, che ha qualche filo influente a Torino. Questa è in contatto con noi, ma non ha voluto mai accettare la proposizione d’azione”. In fondo son dottrinari, aristocratici “che credono doversi stare sino ad una rivoluzione nuova in Francia…”.[xxviii] Il centro in Torino è l’avvocato Badariotti. Gli si presenti l’emissario della Giovane Italia e lo scongiuri con la più calda, appassionata eloquenza. “Frema, pianga, se occorre. Faccia valere con grazia la nulla sicurezza loro: un Gioberti, . loro, fu arrestato. A poco apoco ci cadranno tutti”. Se si riuscisse a smuovere il Badariotti, il maggiore Como, “La rivoluzione è bell’e fatta”. Raffrontata coi documenti processuali, la lettera del Mazzini chiarisce e risolve definitivamente la vessata questione dei rapporti di Gioberti con la Giovane Italia. Alla federazione formalmente non appartenne di certo: l’avrebbe altrimenti Mazzini, che possedeva tutti i quadri degli adepti coi nomi di battaglia, proclamati dei suoi, non già della coterie Badariotti, nella quale v’erano, per così dire, un’estrema dx e un’estrema sx. I più temperati rifuggivano dalla nuova società di Marsiglia, e non volevano neppur discutere l’alleanza, cominciando dall’avvocato Badariotti che pur, secondo Mazzini, non mancava d’ingegno e, possiamo aggiungere, di furberia, dacché non ebbe molestie dalla polizia sarda malgrado certi accenni di Raimondo Doria.
Gli elementi più generosi e pugnaci accettavano invece non il solo contatto con la Giovane Italia, ma anche accordi concreti per l’imminente insurrezione. Tra questi era allora il Gioberti: il tono dei suoi discorsi riferiti dallo Zacchia, dall’Alberti, non lascia il minimo dubbio. I giudici militari lo ritenevano così compromesso che a più di un sergente inquisito domandarono se avesse avuto suggestioni dal Gioberti: per esempio al povero Biglia Giuseppe, fucilato a Genova, che aveva accidentalmente passato alcuni giorni a Torino.[xxix] Gli indizi raccolti erano invero abbastanza numerosi e gravi per potervi facilmente imbastire su un processo contro il Gioberti: ed è evidente che l’inquisizione fu troncata da una priovvida mano – quella del Re Carlo Alberto – prosciogliendo dal carcere e condannando all’esilio l’ex cappellano di Corte, ripetè lo stesso “provvedimento economico” che Carlo Felice aveva sancito per Mazzini. Parlar d’ingiustizia sarebbe cecità partigiana: quando, quasi venti anni più tardi, nella famosa polemica col Dabormida, Gioberti pretendeva che avrebbe partorito pubblico scandalo, avrebbe potuto nuocere al Dabormida “nell’opinione dei pregiudicati e recargli gravi dispiaceri”la propalazione d’aver entrambi appartenuto alla Società presieduta dal Badariotti[xxx], o magari a quella società degli Amici del Popolo Italiano che il Mazzini diceva pur allora diffusa in Piemonte.[xxxi] Non ad altro può riferirsi l’accenno ad una lettera giobertiana al Lamarmora, intromessosi paciere: io e la persona di cui si tratta [il generale Dabormida] fummo nel 1833 membri di una società politica e segreta. Il suo scopo non era sovversivo né antidemocratico. Ma i suoi membri erano vincolati al silenzio da un giuramento. Ciò basta ad un intelletto così perspicace come il suo. Ella giudichi se sia prudente il propalar questo fatto”. Che si trattasse della Giovane Italia è escluso, perché questa era società eminentemente sovversiva ed antimonarchica: non può che alludersi alla vendita carbonica degli Indipendenti di tendenza spiccatamente monarchica e guelfa. Anche il programma dei Veri Italiani 8ibid. p. 501, segg9 era Repubblicano: quindi non parrebbe plausibile supporre che vi aderisse il Gioberti, ancora cappellano di Corte, a meno ché egli non si fosse associato a quella frazione della setta, che l’Allegra pretende aver organizzato su base monarchica, propugnando cioè “l’Unità d’Italia sotto l’egemonia costituzionale di Casa Savoia”. Ma sarebbe puerile pensare che nel 1851 il Gioberti rifuggisse dal rivelarlo: e dei suoi contatti con l’Allegra, anzi col Badariotti, manca ogni prova. M’attengo perciò all’opinione più verosimile, enunciata nel testo: è quanto all’asserzione del Durando[xxxii] che il Gioberti avesse appartenuto all’associazione segreta, in cui i fratelli Durando furono implicati col Brofferio, col Bersani ecc…la ritengo assolutamente infondata. Gli atti superstiti, e tutt’altro che edificanti, di quel processo del 1834 contro i così detti cavalieri della Libertà non nominano né punto, né poco il Gioberti.
Sono assolutamente condivisibili queste posizioni, anche se la collaborazione fra le varie frange settarie dovette essere ben sostenuta.
Il legame di De Agostini con Angelo Brofferio ancora nel 1871 ci fa porre importanti domande.
Note Conclusive
Traggo dallo storico Giuseppe Leti in “ Carboneria e Massoneria nel Risorgimento italiano queste significative osservazioni sulle vicende dell’immediata Restaurazione:[xxxiii] “Abbiamo parlato di una crisi della coscienza italiana, a proposito delle origini del Risorgimento. Ed è superfluo aggiungere che si tratta del volto italiano di una crisi europea, o ricordar le tappe fondamentali di un tale processo storico: la delusione seminata ovunque dalle involuzioni dispotiche ed imperialistiche del regime napoleonico; la nascita di un’opposizione a quel regime, ispirata ad idee di libertà e nazionalità, anziché a nostalgie reazionarie; la diffusione europea di questa opposizione, attraverso gli scrittori di Coppet, il patriottismo romantico tedesco, la guerra di Spagna, la Sicilia di Bentickn e gli “Italici puri”, la Russia del 1812 e lo zar Alessandro della prima maniera. Tutte queste forze, più che una crisi di coscienza, si fanno un esame di coscienza. E’ il centro sinistra del tempo a dover fare i conti con la propria storia. Sono gli avversari liberal nazionali di Napoleone. Gli umanitari “evangelicals”precedono dunque lo stesso liberalismo politico di Lord Bentinck nel rivolgersi all’Italia con le proprie attenzioni.
L’ondata rivoluzionaria del 1830, spazzando via la monarchia reazionaria di Carlo X e scrollando profondamente le oligarchie elvetiche, porterà infine alla sua conclusione il processo iniziatosi all’indomani della caduta di Napoleone. Dopo un ultimo show-down teologico – la pubblicazione nel 1831 degli “Essais thèologiques” dello Chénevière, in cui il socinianismo riceve la sua più franca definizione, e la risposta di Malan, ed un’ultima battaglia in seno alla Compagnia, che obbliga ad uscirne Gaussen e Galland, si arriverà alla nascita di quella Société Evangélique di Ginevra, che nei decenni successivi rappresenterà un po’ il cuore ed il cervello del risveglio continentale. E si arriverà ugualmente, con l’avvento di Vinet all’Accademia di Losanna e l’esuberante rinascita di forze culturali e spirituali nel protestantesimo francese, a quella nuova fase di storia religiosa, di cui dovremo occuparci largamente nei capitoli seguenti [aggiungerei al riguardo che il sottofondo spirituale del risorgimento rimase sempre una costante Europea, non solo italiana].
Nulla, per il momento, ricorda ancora, nell’ambiente toscano che fa capo al Lambruschini ed al Vieusseux, [prosegui il Leti] quelle brusche fratture tra passato e presente, che dal 1817 in avanti hanno caratterizzato il clima religioso del protestantesimo franco-svizzero. L’abile diplomazia del Vieusseux, quelle brusche fratture tra passato e presente, che dal 1817 in avanti hanno caratterizzato il clima religioso del protestantesimo franco-svizzero. L’abile diplomazia del Vieusseux ed il latitudinarismo dottrinale del Lambruschini, insieme all’anelito comune al rinnovamento delle coscienze e della società od alla comune lotta contro la vecchia Italia retorica, sanfedista, codina, consentono, non solo la convivenza tra protestanti e cattolico-riformatori, ma addirittura quella – oltralpe tanto difficile – tra l’antico retaggio sociniano ed i virgulti nuovi rampollanti dal terreno del Réveil.
Un Enrico Mayer, per esempio, scolaro di Schulthesius, erede della sua ammirazione per il Foscolo, precettore di napoleonidi ed in contatto assiduo con ambienti massonici internazionali, ma al tempo stesso ammiratore di Sismondi, collaboratore di Matilde Calandrini e del Lambruschini nell’opera pedagogica, nonché, d’altra parte, cospiratore nelle file della Giovine Italia, è un po’ l’incarnazione vivente della continuità storica tra passato ed avvenire o dell’ampiezza ecumenica di confluenze verso un comune scopo di bene, cui si studiano di pervenire questi toscani”.
In una nota della sua opera “Mazzini Carbonaro” lo storico Alessandro Luzio mette in evidenza[xxxiv] che il Mayr, Der Italiensche irredentismus, Innsbruck 1917, p. 49, accenna ad un fatto singolarissimo che meriterebbe di esser chiarito, con speciali ricerche, di carbonari propugnanti una lega di Principi sotto la presidenza del Papa sin dal 1814. La proposta, che anticipa di trent’anni il Primato di Gioberti sarebbe contenuta in un opuscolo di un Boselli che, sostiene Luzio, “non m’è riuscito di rintracciare”. L’Opuscolo riporta la dicitura” Nota d’un italiano agli alti Principi alleati sulla necessità d’una lega italiana per la pace d’Europa. Il Messaggere Tirolese del 10 gennaio 1815, nel farne la recensione, avrebbe applaudito; ciò con grande scandalo delle autorità viennesi, che diedero una lavata di capo alla censura locale per aver tollerata pubblicazione siffatta. Sempre Alessandro Luzio, questa volta in “Massoneria e Risorgimento italiano”[xxxv], ci descrive uno Stato piemontese volto all’indomani del Congresso di Vienna, a modificare l’ordine costituito: “Padre [Dolce] informatore da Piacenza del governo Milanese, il 12 agosto 1816 scriveva alle autorità, richiamando in uno dei suoi dispacci più sorprendenti il Governo di Milano all’attenzione verso il Principe di Carignano, preteso Carbonaro, descritto come giovane di moltissima vivacità, che in Piemonte si era formato un partito ben numeroso d’indipendentisti, e con questo sperava d’essere eletto Re d’Italia. Per ispirito forse di religione sonovi Eccellenza – prosegue padre Dolce – altri Principi in Italia che primeggiano fra i congregati: ma io non ardisco pronunziare il loro rispettabilissimo nome. Questo iatalissimo cambiamento di scena sotto il manto lusinghiero della religione, che abbraccia ogni ceto di uomini, deve avere luogo al momento che truppe estere sbarcheranno nei porti d’Italia…”[…]. Un lunghissimo rapporto da Roma ripete che “la più gran parte del clero pontificio è diviso da due sette, Conciliatoristi e Guelfi”. E come nell’Urbe, così in tutta Italia, “sono assai pochi i Cardinali, i Vescovi, i Prelati ed i semplici preti non compromessi in una o nell’altra”. Il Principe, di cui padre Dolce non ardisce pronunziare il “rispettabilissimo nome”, come di fautore di Società Carboniche, era Francesco IV, Duca di Modena. Non è irrilevante la circostanza che uno degli scritti auto-apologetici di Carlo alberto sulla rivoluzione del 1821 recasse il motto “Ad majorem Dei gloriam”, che era precisamente la divisa della Congregazione Cattolica Apostolica Romana, con cui non è improbabile venisse a contatto, se interpretava così bene le sue più salde e inconcusse direttive politiche: – L’amor di Patria, la riverenza alla religione, al Pontefice, o ai P.P. Gesuiti così cari più tardi al suo cuore, non escludono dunque che la Congregazione fosse, con queste enormi professioni di fede (enormi dal punto di vista massonico, una propaggine [sostiene Luzio], una continuazione dell’antica setta cosmopolita”.
Una interpretazione del ruolo della Massoneria in epoca di Restaurazione vuole “una sorta di continuità tra il mondo liberomuratorio e quello settario, collegando la corrente massonica, che s’ispirava agli ideali degli illuminati di Baviera, ai gruppi settari. Secondo Carlo Francovich “In questa massoneria non solo sopravvivono i principi politici e i simboli dell’illuminismo di Weishaupt, ma anche la tecnica organizzativa, il gradualismo delle rivelazioni, il metodo di porre al candidato dei quesiti per vedere se è veramente adatto a comprendere le nuove verità, il mimetizzarsi con logge e riti tutt’altro che radicali, per stornare verso queste i candidati indegni e per confondere le idee della polizia”.[xxxvi]
Anche se molto schematico e non privo d’inesattezze, il pensiero di Gaetano Salvemini riassume bene quest’interpretazione: “Nell’Italia settentrionale”, scrisse Salvemini, “caduto il regime napoleonico, la Massoneria ridiventò segreta, mettendosi anch’essa alla opposizione contro i governi restaurati. Essendo assai discreditati dal servilismo dimostrato nel periodo napoleonico, i massoni sentirono il bisogno di cambiare maschera: si chiamarono Federati, Adelfi, Sublimi Maestri Perfetti. Siccome la Carboneria, dopo il 1814, si era diffusa nel mezzogiorno verso il centro e il nord d’Italia, i massoni cercarono di confondersi con la Carboneria. Facevano credere d’essere carbonari e fondavano vendite carbonare; ma i maestri di queste vendite erano agenti della Massoneria, perciò verso il 1820 e il 1830, non è facile distinguere la Carboneria dalla Massoneria. Possiamo solo dire che nel Mezzogiorno d’Italia prevale la Carboneria; nell’Italia settentrionale prevale la Massoneria; e anche quando, nel nord, troviamo che si parla di vendite carbonare, queste sono quasi sempre fondate da massoni, i quali cercano di trasformare la Carboneria in una specie di lunga mano – come si dice in gergo massonico – della Massoneria. Gli affiliati dei gradi inferiori credevano di entrare nella Carboneria, e invece formavano i primi gradini dell’organizzazione massonica”.[xxxvii]
[i] Armando Saitta ,Filippo Buonarroti, contributo alla storia della vita e del suo pensiero – volume I, Roma, istituto Storico Italiano per l’età moderna e contemporanea, 1972.
[ii] Biblioteca centrale del Risorgimento – Ms. B. 44, N° 110-
[iii] Vedere appendice all’Op. cit. di Atto Vannucci.
[iv] Archivio storico lombardo, 1917, fasc. II.
[v] Anno XI, fasc. III.
[vi] Giuseppe Leti, Carboneria e Massoneria nel Risorgimento itali
ano, Bologna, Arnoldo Forni editore.
[vii] L’albero della Libertà, dai Giacobini a Garibaldi di Alessandro Galante Garrone, Firenze, Le Monnier 1987, p- 81 e sgg.
[viii] Ibidem, p. 141.
[ix] Queste osservazioni le troviamo nel libro di marco Novarino e matteo Barbiero, “Massoni del Canavese. Presenza e presenze in Piemonte e in Italia,Priuli e Verlucca editori.
[x] Il conte Carlo Bianco di Saint Jorioz si trasferì dall’Inghilterra a Parigi dopo la rivoluzione del 1830 e si guadagnò la fiducia di Filippo Buonarroti, il Nestore dei rivoluzionari italiani, che lo pose nella Giunta Liberatrice Italiana, da lui appena creata. Popi nel febbraio 1831 si recò a Lione per una progettata azione in Savoia, quindi in Corsica con Mazzini per una spedizione nell’Italia centrale; sfumata anche’essa, nella primavera è a Marsiglia, ove appare capo e agitatore, se non proprio fondatore della setta degli Apofasmeni (Disperati, pronti allo sbaraglio), cui si ascrive anche Mazzini; poi, accanto a Mazzini è tra i primi iscritti alla “Giovine Italia”, e infine membro attivo della giunta centrale di essa.
[xi] La Cecilia, Memorie…, i, p. 131.
[xii] Galante Garrone ritiene che il Linati sia un isolato, mentre per Saitta alcune sue frasi non lasciano dubbi sulla vicinanza al Buonarroti: “ridurli ai campi” [riferito agli austriaci invasori), “punire fin con la morte l’ozio” ecc…
[xiii] G. Arrivabene, Memorie della mia vita, Firenze 1879, vol. I, pp. 191-192.
[xiv] Alessandro Luzio, “ La Massoneria e il Risorgimento”, cit., p. 158.
[xv] Galante Garrone, cit., p. 229.
[xvi] Elena Pierotti, Gioacchino Prosperi. Dalle amicizie cristiane ai valori rosminiani, Pisa, Tesi di Laurea, A.A. 2009-2010.
[xvii] Solaro della Margherita, Memorandum storico politico, Torino 1851, pp. 551-571.
[xviii] G. Prosperi, La Corsica e i miei viaggi in quell’Isola, Bastia, Tip. Fabiani, 1844.
[xix] Gazzetta piemontese n. 41 del 1833.
[xx]L’Ode di riferimento appartiene al dottor Bertotti di Cuorgnè.
[xxi] G. Prosperi, La Corsica…, cit.
[xxii] L’Acropoli”,rivista bimestrale diretta da Giuseppe Galasso, Anno VIII, n. 4, Studi e ricerche.
[xxiii] Gioberti e la Giovane Italia, p. 487 in Luzio, cit.
[xxiv] Ibidem, p. 493
[xxv] Vi era pure un Francesco Como, maggiore d’artiglieria, su cui Mazzini faceva grandissimo assegnamento. Epistolario I, p. 450.
[xxvi] Belle propalazioni scritte del Girardenghi si legge in proposito: “Azario, intervenuto in un congresso tenuto in Svizzera nell’estate scorsa, a detta di Ruffini avvocato che ci fu anche e che io vidi al di lui ritorno, partì assai disgustato per le dissensioni, protestando di volersi ritirare. Moja essendo andato a Torino nell’inverno scorso con mia lettera per Azario, questi la gettò sul fuoco! Pel Congresso di Bellinzona cfr. Epistolario I, p. 113.
[xxvii] Nel battaglione degli studenti universitari, associatisi alla rivoluzione del ventuno, non pare che l’Azario spiegasse, secondo l’Allegra, grande ardor combattivo.
[xxviii] Mazzini soggiunge: “Uomini che ci temono, uomini che non pronunziano cosa vogliono…, che il nostro numero III (forse il Cappa) ha ridotti a noi, il IV (forse l’Azario) ha rimossi nuovamente, che temono vedere sfruttato da noi il lione popolare, che peraltro nell’ultima crisi [il laicismo italo- sardo, ancora fastidiosamente vantaggioso, li armò finalmente i Polacchi] han fatto dire essere pronti a unirsi per agire”. Cfr. , Costitutio Doria, 9 ottobre 1832.
[xxix] Processi politici, cartella terza, volume I, ultima pagina. In hora mortis venne il Biglia con gli altri due compagni di supplizio, Gavotti e Miglio, il 14 giugno 1833 costretto ancora a comparire davanti all’auditore Ratti opizzone per sentirsi interrogare un’ultima volta “sui complici”. Egli rispose: “Non ho nulla a palesare”.
[xxx] Chiala, La vita e i tempi del Generale G. Dabormida, p. 520
[xxxi] Epistolario mazziniano, I, p. 139.
[xxxii] Episodi diplomatici del Risorgimento italiano, Torino 1901, p. 7
[xxxiii] Giuseppe Leti, Massoneria e Carboneria nel Risorgimento italiano, p. 82 e sgg.
[xxxiv] Alessandro Luzio, Mazzini Carbonaro, p. 501 in nota.
[xxxv] Alessandro Luzio, Massoneria e Risorgimento italiano, Vol. I, Bologna, Armando Forni editore, 1925, p. 182.
[xxxvi] Cfr. Francovich, Gli illuminati di Weishanpt e l’idea ugualitaria in alcune società segrete del Risorgimento, in “Movimento Operaio”, II, (1952), n. 4, poi raccolto in id. Albori socialisti del Risorgimento, Contributo allo studio delle Società Segrete( 1776 – 1835), Firenze, Le Monnier 1962, pp. 1-39.
[xxxvii] Gaetano Salvemini, L’Italia politica del secolo XIX, in L’Europa del secolo XIX, a cura di d. Donati e F. Carli, Padova, Milano 1925, pp. 323.401; “Il risorgimento Italiano”, in id., Scritti sul Risorgimento, a cura di P.Pieri e P. Pischedde, Milano, Feltrinelli, 1973, p. 400.