Alessandro Corti
Adriano Olivetti amava ripetere che il salario di un manager o di un imprenditore non avrebbe dovuto superare di dieci volte quello minimo di un operaio. Altri tempi, teorie e regole che la più grande crisi, dal dopoguerra, ha spazzato via. Insieme ad un bel pezzo della ricchezza mondiale. Ma, per la verità, la recessione non ha colpito tutti allo stesso modo. C’è chi ha perso lavoro e risparmi e chi, invece, nello stesso periodo, ha visto aumentare in maniera esponenziale il proprio patrimonio. Il risultato, secondo gli ultimi dati diffusi ieri, proprio alla vigilia del tradizionale vertice sull’economia di Davos, sono impressionanti. Ormai l’1% della popolazione controlla il 50% della ricchezza globale. Un rapporto molto vicino anche a quello che si registra nel nostro Paese dove, dal 2008 al 2013, le 10 famiglie più ricche hanno visto il loro patrimonio crescere dal 30 al 50% di quello che, complessivamente è nelle mani della restante parte della popolazione. Alla faccia di ogni politica di redistribuzione dei redditi.
E’ una strana crisi quella che stiamo vivendo, fa diventare più ricchi i miliardari e più poveri chi non arriva alla fine del mese. Eppure, un nutrito esercito di economisti si è battuto, negli anni passati, nella difesa del sistema capitalistico, sia pure corretto con politiche redistributive del reddito. Poi, però, qualcosa si è inceppato. La finanziarizzazione del sistema, il predominio dell’economia di carta su quella reale, ha fatto saltare tutte le regole. Di fronte alla crisi crescente dei consumi e al crollo della produzione, l’unico settore che è riuscito a incassare il dividendo della grande recessione è stato quello finanziario. Ha speculato sui titoli pubblici dei paesi più deboli, ha spostato montagne di denaro orientandole, di volta in volta, su questa o quella moneta, ha messo in ginocchio l’economia reale, sostituendola con quella, tutta virtuale, delle grandi operazioni finanziarie. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: crescita delle diseguaglianze, impennata della povertà, crollo dei consumi, centinaia di migliaia di posti di lavoro bruciati insieme con una perdita record del nostro apparato produttivo.
In questo scenario, la politica è apparsa disorientata e debole, incapace di trovare le risposte adeguate, sottoposta alle pressioni sempre più forti dei grandi lobbisti della finanza. Ma ora il sistema ha raggiunto, forse, un punto di non ritorno. La crescita delle diseguaglianze e la concentrazione di ricchezza e potere nelle mani di un’èlite non è in grado più di assicurare quell’espansione del benessere che è stata alla base del modello occidentale. Insomma, è l’ora di tornare all’economia reale, quella fatta di fabbriche e di persone concrete. Dove la vecchia regola aurea di Adriano Olivetti non è affatto una bestemmia.