Nella meravigliosa aula magna dell’Università di Padova 400 tra imprenditori, accademici e rappresentanti delle istituzioni locali hanno assistito nei giorni scorsi alla presentazione del Rapporto della Fondazione Nord Est sulla competitività delle imprese. Il sottosegretario Giorgetti, il governatore del Friuli Fedriga e il nuovo presidente della Provincia di Trento Fugatti non c’erano.Gira voce che a suggerire la mossa siano stati i vertici della Lega, preoccupati per il rischio di rimostranze da parte del ceto produttivo del Nord Est. Anche due giorni prima, a Brescia, nessun membro del governo, salvo un collegamento telefonico con il sottosegretario leghista (di Latina) Claudio Durigon, che nel gelo della platea aveva provato a difendere la manovra gialloverde.
E appena meglio era andata al governatore della Lombardia Fontana: «Siamo vicini alle vostre richieste». Imbarazzo generale, applausi men che tiepidi. La Questione settentrionale è un problema del governo, grande come il Nord. Ma è soprattutto un problema della Lega, che con Salvini ha allargato il consenso ma qui conserva il serbatoio elettorale più consistente per numero e peso specifico, se si considera che Nord Ovest, Lombardia e Triveneto valgono quasi metà del Pil italiano.
Il punto è che chi produce quel Pil è parecchio nervoso: il decreto dignità, i numeri fantasiosi del Def, le tensioni con l’Europa, la manovra economica, le incertezze sulle infrastrutture e da ultimo i contrasti sui termovalorizzatori hanno fatto crescere lo sgomento di imprenditori, artigiani, commercianti, pure quelli che il 4 marzo hanno votato Lega. Roberto Maroni, ex ministro, segretario della Lega e governatore della Lombardia, il ceto produttivo del Nord lo conosce bene: «Non è un complotto, non è la congiura delle élite, né la picca degli apparati confindustriali. È il Nord che lavora, tradizionalmente filogovernativo, che reagisce perché è deluso e angosciato per il futuro. Questo governo sta facendo l’esatto opposto di ciò di cui le imprese hanno bisogno».