Era un ragazzo diretto, Federico Bisceglia. Un magistrato competente, un professionista coraggioso e un oratore in gamba, ma era sempre e solo un ragazzo.
E’ morto in una notte di fine febbraio, in un tragico e poco chiaro incidente stradale, mentre viaggiava nella sua Calabria. In Campania esercitava la sua professione e per la Terra dei Fuochi, tra le altre indagini, si batteva.
“La verità si difende da sola”, ha detto ieri Padre Maurizio Patriciello durante la messa celebrata per ricordarlo. Non sempre, purtroppo. La verità ha, invece, bisogno di uomini come il giudice Bisceglia per essere snidata e compresa, ha necessità costante di uomini che ne avvertano la sete e che non abbiano paura di guardarla in faccia.
A Caivano, nella Chiesa di S. Paolo Apostolo, al Parco Verde, dove si consumano storie di ordinario degrado, c’erano tutti quelli che qui, tra Fuochi e Veleni, lo avevano conosciuto e amato: comitati territoriali, mamme guerriere, medici impegnati, privati cittadini. Si sono uniti ad un sacerdote eccezionale nel dirgli addio e nel ringraziarlo per essere stato un esempio di straordinaria passione nel compiere, semplicemente, il proprio dovere.
Ed è questo che stupisce, oggi, di uomini come Federico Bisceglia: la determinazione e l’amore nel fare “solo” il proprio lavoro. Tutti i giorni, contro tutti. In una realtà che premia l’ipocrisia e mitizza l’arrivismo, la morte di un ragazzo con gli occhiali, dal forte accento del sud, che stigmatizza con forza le devianze e la pochezza delle istituzioni, non solo fa notizia, ma sgomenta. Non per i dubbi e le domande che suscitano le circostanze in cui si è verificata, ma per la desolazione e il vuoto che lascia in chi a questa terra è legato e da questa terra si sente, in qualche modo, tradito.
Ci difendeva, Federico, a spada tratta. Si schierava con i giusti e davanti al Tempio si indignava con forza: i bambini non si toccano.
In chiesa, tra telecamere e macchine fotografiche, fra tante persone commosse e le parole dolcissime di un prete traboccante amore per la sua terra e per la sua gente, due ulivi: per Federico e per Fortuna, morta tragicamente a sei anni in una squallida storia di violenza al Parco verde e per la quale il giudice Bisceglia pretendeva giustizia. In un vaso la Campania, nell’altro la Calabria.
I combattenti della Terra dei Fuochi hanno silenziosamente depositato un pugno di queste terre martoriate sulle radici degli alberelli, giovanissimi, come le vittime che queste stesse terre hanno mietuto, mentre un lungo applauso partiva dalle navate quale ultimo saluto a chi, ora, la Verità la contempla da vicino.
“Restiamo uniti” sono le parole conclusive di un’omelia che è stata una carezza. Un appello ai gruppi e ai comitati che ora, dopo anni di guerriglia pacifica con le istituzioni, si sentono stanchi e affaticati dalla mancanza oggettiva di risultati apprezzabili. La politica ci ignora e ignora le proprie responsabilità. Con le Regionali alle porte, le vittime da inquinamento ambientale non esistono o sono solo argomento da palco elettorale.
La morte di un magistrato, che di queste vittime perorava la difficilissima causa, è tanto più assurda da accettare quanto più si comprende che i tempi della giustizia terrena saranno straordinariamente lunghi. La morte di un ragazzo pulito, che faceva solo il proprio lavoro e lo faceva bene, è tanto più drammatica quanto più paragonata al deserto morale che c’è.
Ma la morte di Federico Bisceglia è anche un fiore, anzi, una piantina di ulivo. Affonderà le sue forti radici in questa terra svilita e la renderà fertile. Perché certe vite e certi uomini hanno il potere di essere nutrimento per la loro epoca e perché il seme della giustizia, una volta gettato, non può che portare molto frutto e tanta, tantissima, speranza.
Miriam Corongiu
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