di Michele Eugenio Di Carlo*
I fattori che hanno reso possibile che l’Italia, una delle potenze economiche dell’Occidente, arrivasse al punto da essere classificata come la nazione europea con il più alto tasso di disuguaglianza interna a livello territoriale, sono ormai noti, oltre che opinione consolidata in tutti gli ambienti politici ed economici italiani ed europei.
Le analisi, seppur ovattate dalla grande informazione imperante nei salotti televisivi, sono state tutte ricondotte inesorabilmente alle scellerate politiche economiche degli ultimi 30-40 anni, soggette peraltro al forte condizionamento anche elettorale della Lega Nord, un partito fortemente territoriale, divisivo e che ha fatto per decenni della discriminazione contro il Sud il suo cavallo di battaglia, mentre solo da pochi anni ha sostituito le denigrazioni contro i meridionali con quelle contro i migranti, peraltro utilizzando lo stesso schema e lo stesso metodo, come ha riferito qualche tempo fa in una trasmissione televisiva Furio Colombo.
Il risultato è comunque un devastante quadro socio-economico del Mezzogiorno (fuga di milioni di cittadini costretti ad emigrare; desertificazione di intere aree interne; disoccupazione giovanile in alcune aree al 60%; carenze ormai croniche di infrastrutture stradali, autostradali, ferroviarie, aeroportuali, portuali, penalizzanti lo sviluppo di tutti i settori; tecnologia applicata all’economia, alla cultura, ai servizi non adeguata).
Grafica di Aldo Pirillo
Può un quadro così desolante sul Mezzogiorno essere imputabile solo alla Lega Nord o deve essere ricondotto a responsabilità di una sfera più ampia e complessa di condivisione di politiche che fanno capo all’intero arco parlamentare delle forze politiche?
La risposta è del tutto scontata: le politiche prodotte negli ultimi 30 anni dimostrano inequivocabilmente la responsabilità, nella discriminazione del Mezzogiorno e nella mancata applicazione della Costituzione, di quei partiti ormai definiti appartenenti al PUN (partito unico del nord): Lega Nord, PD, FI, FdI.
Accertato quanto sopra, la domanda che viene sempre posta è la seguente: come sia stato possibile che partiti nazionali con esponenti importanti eletti nel Sud abbiano permesso politiche discriminatorie riguardanti il proprio territorio, fino a giungere a forme di disuguaglianza sociale ed economica tipiche in paesi del Terzo mondo dalle labili istituzioni democratiche?
Grafica di Aldo Pirillo
La risposta è complessa e articolata, risiede nell’impostazione della nuova legge elettorale, ma investe anche il nuovo panorama finanziario mondiale che il mondo subisce passivamente da almeno 40 anni: la globalizzazione in tutte le sue sfaccettature, da quella economico-finanziaria a quella politica, da quella etica a quella ambientale, da quella dei diritti a quella degli spazi di partecipazione, di cittadinanza, di democrazia reale. Una risposta non può esimersi dal tenere nella giusta considerazione la circostanza che la società si è profondamente evoluta con il passaggio dal Neoliberismo del Novecento a quello subentrato dagli anni Ottanta del secolo scorso, che Federico Rampini ha definito l’età del caos: un passo a ritroso verso un nuovo Feudalesimo dei diritti e delle istituzioni democratiche, che una ristretta oligarchia capitalistica finanziaria, guidata da una potente élite intellettuale, sta cavalcando senza alcun progetto futuribile con l’unico obiettivo di accumulare ricchezze, accompagnato da un profondo disprezzo per il destino del pianeta, dell’uomo e del suo ambiente naturale.
In questo contesto, il problema del divario del Mezzogiorno dal resto del paese non è più un caso a sé stante, ma inquadrabile in un contesto globalizzato in cui potenti multinazionali e lobby finanziarie si inseriscono nei gangli vitati della politica condizionandone le scelte a vantaggio di interessi privati, estremamente deleteri in riferimento ai “beni comuni”: lavoro, salute, ambiente, diritti, partecipazione.
Solo considerando l’attuale crisi ambientale, non si spiega altrimenti, ad esempio, la miopia con cui a grandi passi ci si avvicini alla distruzione dell’ambiente naturale con gravissime ripercussioni sulla qualità della vita, nonostante nella Conferenza Mondiale di Parigi del 2015 i capi di Stato di tutto il mondo, quasi impotenti di fronte alla forza del capitalismo finanziario, siano stati messi di fronte alla non sostenibilità di un ulteriore inquinamento che ha già modificato il clima con pesanti conseguenze sui problemi della fame del mondo, della disponibilità di acqua potabile e a fini irrigui, della desertificazione di aree sempre più consistenti, della distruzione dell’ozono, dell’effetto serra, dello scioglimento dei ghiacciai, dell’innalzamento del livello dei mari, dei flussi migratori indotti e sempre più consistenti.
Possiamo ritenere che l’Italia e il Mezzogiorno siano esenti dall’aggressività della finanza globale e che alcune scelte politiche non siano state condizionate dalla sua forza prorompente?
Assolutamente no! La pianura padana è ormai una delle aree più inquinate d’Europa dove vige solo la legge dell’economia e della finanza, mentre salute e qualità della vita vengono del tutto in secondo ordine con riflessi ormai negativi anche su produzioni agro-alimentari ritenute eccellenze nel mondo, ma che solo una forte promozione finanziaria riesce a sostenere. A questo proposito basterebbe considerare gli allevamenti intensivi del tutto insostenibili per l’ambiente, la qualità della vita, le stesse produzioni di latte, formaggi, carni e prosciutti, spesso ritirati dal mercato per problemi igienici e sanitari.
La forza della finanza si è poi sicuramente rivelata nella recente pandemia con la mancata chiusura di aree ritenute rosse dal Comitato tecnico scientifico e che Governo e Regione Lombardia non hanno osato contrastare.
Scendendo nel Mezzogiorno l’impronta colonizzatrice della finanza globale è netta: sfruttamento intensivo di pozzi petroliferi in Basilicata senza alcun rispetto per l’ambiente, per la salute dei suoi cittadini e senza alcun ritorno economico sul territorio; pale eoliche selvaggiamente impiantate in diversi distretti senza alcun vantaggio visibile per i cittadini. E, infine, l’esempio simbolo del disprezzo della vita delle persone e di condizioni oppressive di lavoro della classe operaia: l’Ilva di Taranto.
Un discorso a parte merita il tentativo di colonizzare i mari del Sud con pozzi petroliferi off-shore.
Alcuni permessi di ricerca rilasciati dal Ministero dell’Ambiente, a varie multinazionali petrolifere, sono stati fortemente contestati perché non hanno incomprensibilmente tenuto in considerazione elementi fondamentali quali la posizione geografica, la bellezza della costa, le conseguenze sociali ed economiche a lungo termine, la scarsa qualità del petrolio presente; i probabili forti impatti ambientali quali subsidenza, scoppi di pozzi, dispersione nel mare di rifiuti speciali, anche tossici; i riflessi della tecnologia air gun usata nei rilevamenti, devastanti sulla vita di animali acquatici quali anche tartarughe, balene, delfini, come una chiara letteratura scientifica attesta; i danni all’ecosistema durante lo scavo dei pozzi esplorativi, causati da fluidi perforanti a base di acqua con presenza di metalli quali mercurio, arsenico, vanadio, piombo, zinco, alluminio, cromo, oltre a arsenico, benzene, toluene, xylene.
Nessuna considerazione per gli aspetti etici, ambientali e naturalistici, intesi come necessità e responsabilità di conservare le migliori condizioni per favorire la biodiversità, di considerare le esigenze economiche e occupazionali legate all’attività di pesca che si svolge lungo tutto l’Adriatico, già in crisi per altri fattori di inquinamento ambientale e per l’eccessivo sfruttamento delle risorse ittiche.
Nessuna considerazione – atteggiamento tipico di territori ritenuti colonizzati – per la non compatibilità assoluta delle attività di estrazione petrolifera con i pregi e le bellezze della costa adriatica sulla quale si svolge un’attività economica turistico-culturale rilevante e dove esistono aree protette e di particolare pregio ambientale, naturalistico, paesaggistico, storico, culturale che sono state istituite e riconosciute lungo la costa interessata dalle trivellazioni: Parco nazionale del Gargano; parchi regionali: Conero, Fiume Ofanto, Dune costiere da Torre Canne a Torre S. Leonardo, Salina di Punta della Contessa, Costa Otranto, Santa Maria di Leuca e Bosco di Tricase; riserve naturali statali: Lago di Lesina, Isola Varano, Ischitella e Carpino, salina di Margherita di Savoia, Torre Guaceto, San Cataldo, Le Cesine; riserve naturali regionali: calanchi di Atri, lecceta di Torino di Sangro, punta Aderci, salina punta della Contessa, Bosco Cerano; aree marine protette: Torre del Cerrano, Isole Tremiti, Torre Guaceto. Senza considerare le centinaia di monumenti naturali, i parchi suburbani, i parchi provinciali, le oasi di associazioni ambientaliste (WWF, Pro Natura, LIPU) riconosciute come aree naturali protette, e innumerevoli siti appartenenti alla Rete Natura 2000, considerati di grande valore in quanto habitat naturali dagli eccezionali esemplari di fauna e flora, istituiti nel quadro della “direttiva habitat”.
Questa mancata tutela, in totale contrasto con l’ambiente, l’economia, la storia, le tradizioni che si svolgono lungo la costa adriatica da Rimini sino a Santa Maria di Leuca, di un territorio ampiamente antropizzato che promuove e valorizza in ogni occasione il turismo di qualità, i prodotti ittici, i sempre più numerosi prodotti agricoli “slow food”, la consolidata immagine di territorio sano che si avvia verso uno sviluppo sempre più sostenibile, è la prova stessa che ormai la forza e la potenza della finanza globale riesce a condizionare pesantemente le scelte politiche e a sterilizzare l’opposizione di sindacati ormai impotenti, cercando e trovando nelle forze parlamentari e nei partiti nazionali le giuste alleanze e convergenze.
Pensare, quindi, di ridurre le problematiche locali nell’ambito ristretto degli Stati nazionali, ormai in via di superamento, è pura utopia, in quanto le logiche non etiche e irresponsabili della finanza globale possono essere combattute solo da politiche e da istituzioni sovrannazionali che riconducano l’economia capitalistica nell’ambito dei valori di rispetto dell’uomo, della sua libertà, dei suoi diritti fondamentali e che determinino le condizioni per fermare la distruzione dell’ambiente naturale in atto. In altre parole, le istituzioni devono riappropriarsi della capacità di difendere il “bene comune”, mentre finora hanno favorito con politiche ultraliberiste gli interessi privati favorendo una disuguaglianza tra ricchi e poveri mai vista prima nel mondo.
Da questo punto di vista l’equità proposta come valore universale dal Movimento per l’Equità Territoriale fondato da Pino Aprile è una risposta rivoluzionaria, concreta, costituzionale, che respinge qualsiasi tentazione populista, leghista e sovranista. Una proposta che affronta la Questione meridionale e il divario nord-sud, riguardante il nostro diviso paese, inquadrandoli in quel contesto più ampio e generalizzato nel quale la finanziarizzazione dell’economia ha sottomesso la politica alle sue esigenze privatistiche senza valori.
Una proposta, quella del Movimento per l’equità territoriale, che rappresenta un vero monito alle politiche di disuguaglianza espresse negli ultimi 30 anni a trazione leghista dei governi italiani, perché va oltre i vecchi concetti di geopolitica delle frontiere, dei confini, dei muri, se sarà necessario anche oltre lo Stato nazionale così come attualmente male inteso costituzionalmente.
Una proposta che spinge le istituzioni democratiche a rialzare la testa contro ogni tentativo populista abilmente manovrato dalla finanza delle multinazionali, un invito chiaro affinché la politica si riappropri della capacità di mediare tra l’economia e i sacrosanti diritti dell’uomo, ponendo fine all’epoca delle disuguaglianze crescenti.
*Segreteria nazionale M24A per l’Equità Territoriale