Di Pasquale D’Aiuto.
Questa volta, ti ho sognata così.
Eravamo nell’appartamento di tante, festose riunioni memorabili, a Napoli, in quell’edificio collinare ad angolo, con tratti liberty ed una misteriosa casetta appartata, che si raggiunge con una sorta di costola della maestosa ed austera scala principale.
Quell’abitazione elegante che ho tanto amato e vissuto e che adesso non esiste più, se non nella memoria di un’intera famiglia. Altri potranno goderla, con altre voci, altri mobili, altre storie.
C’era il sole e la luce da sinistra, dalle finestre ampie della stanza da letto. Camminavano insieme su quel pavimento lucente, nel corridoio verso la cucina, che appariva lunghissimo. Già, la cucina!, dove zio sapeva far rivivere il pesce e le aragoste, appena comprati dalle mani di pescatori cui dava del tu.
Mi hai rivolto uno sguardo dei tuoi. Avevi i capelli singolarmente raccolti – da cui spuntava qualche riccio ribelle, nero nero – ed eri bellissima. Indossavi abiti anni ’90, attillati, sobri ed eleganti, color uva e verde autunnale. Portavi tacchi neri. Ho pensato fossi un po’ troppo rigorosa.
Mi sembravi la versione migliore di te e te l’ho detto. Sicura, serena. Ma con lo sguardo di chi sapeva, di chi rammentava ogni cosa.
Ed io te l’ho confessato schiettamente, non so se con la parola od il pensiero: ero certo di poterti trovare (anche) qui, in una delle migliori oasi della tua breve vita. Qualche altra l’avevo già sognata ma non mi era mai sembrata del tutto appagante; come in questo caso, del resto.
Abbiamo finalmente raggiunto quella gloriosa cucina, dove una congiunta (con la sua età dell’epoca) ci impediva di dialogare, intenta a curiosare tra le molte ed insolite cose di cui tutti voi vi circondavate. Mettevo piede sul terrazzo, quello che era stato dei tanti canari incardellati, di cui però adesso non v’era traccia.
Era tutto malinconicamente silenzioso, lindo ed in ordine, e proprio quegli stretti terrazzi, compreso il tuo, erano stati ritinteggiati ed allargati.
Poi abbiamo messo piede nello stanzone che avevi reso il tuo regno. Era disordinato ed allegro come lo ricordavo. Sul letto, ancora non rifatto, oggetti spiritosi ed inusuali.
Ti ho chiesto: “Perché ti fai raggiungere così tante volte da me?”
“Perché sei stato un amico speciale”, hai risposto. Ed io: “Beh, amico… come tutti, direi piuttosto fossi affascinato da te. E poi non ho fatto nulla di speciale”. Quindi, l’unica cosa da dire: “Manchi. Manchi a tutti noi”.
E tu, con quell’adorabile smorfia d’ironia sul viso e la tua voce pastosa, quasi come non ti costasse poi molto: “Non devi pensarci. Vai avanti. Fa’ tutto quel che devi”.
“Lo so, ci sono riuscito, sta’ tranquilla”, ti ho risposto, prima di svegliarmi, quando il sole era già alto.
Avrei voluto parlarti a lungo ma ti ho lasciata lì, nel tuo Altroquando. In attesa di conoscerne, prima o poi, uno nuovo.