L’arrivo in città dalla strada ferrata è annunciato prima dall’argento magico e misterioso degli ulivi e, poco dopo, dalle gru dei cantieri navali, che come volatili immobili e maestosi, ti rassicurano della presenza del mare.
Poi d’improvviso, si spalanca un buio di polvere e ruggine, di un grigio profondo come un baratro. È il girone infernale dell’Ilva, zolfo negli occhi e sale su una ferita, aperta da quasi 60 anni, troppi ormai.
La voce gentile del treno ti allerta, questione di minuti e sarai, col tuo bagaglio, ancora leggero, finalmente con i piedi per terra.
Mi piacerebbe, almeno una volta, poter arrivare via mare. Proprio da lì, dal Mar Grande, dove le antiche mura aragonesi della città, indorate dal sole, sembrano allargarsi in un ampio abbraccio, pronto ad accoglierti e a condurti sulla costa dell’altro mare, il Mar Piccolo, dove trovare ristoro.
Attraverserei dunque i due mari. E sì, perché Taranto è luogo di doppi.
Ha una città nuova che sorge sulla terraferma e un’Isola Madre che ospita la Città Vecchia. Entrambe giacciono sull’arcaico nucleo della colonia greca, in sostanza gli avi sono le nostre fondamenta, in un’ininterrotta continuità di vita.
Le due parti di città, la Madre e la figlia, sono congiunte da due ponti che ti consentono di camminare sui due mari, perché, come dicevo, anche i mari sono doppi: Mar Grande e Mar Piccolo.
Il Grande nutre il respiro salmastro del Piccolo, che poppa acqua dolce dai citri, sorgenti sottomarine.
Nel suo “Giardino” il Piccolo colleziona cozze che, avvinghiate ai loro pali, si sollazzano filtrando acqua e catturando il sole che si impiglia nella polpa.
Il Piccolo respira e restituisce nutrimento al Grande.
Il Mare dunque è certo maschile ma per me, come per i greci, anche femminile.
Η Θάλασσα, “la mare”, parola che suona di onde, salsedine e amore.
Nelle sue acque nasce e cresce una moltitudine di creature marine, dalle infinitamente piccole ai cavallucci marini, alle tartarughe e ai delfini.
In queste acque sono sommersi anche i desideri, muti come pesci, della città.
E noi ci affacciamo dal parapetto del “lungo(a)mare” per cercare, consapevoli o meno, di pescarli: per lenza lo sguardo e un sogno per amo.
Passeggio spesso sul lungo(a)mare, mai in un orario preciso, ma sempre nel vociare del dialetto tarantino.
Camminando catturo parole che mi raccontano dei miei nonni, dei loro padri e madri, di ricordi d’infanzia e di un’antica storia che parla di Grecia.
È una lingua che suona un po’ dura, quella tarantina, raggruppa le vocali finali delle parole in unico suono, quasi incompiuto, che si contrae indolente tra una a e una e, abbonda di u che scendono nel profondo,e di suoni gutturali, come il richiamo imperioso di un lattante.
Ricerco e raccolgo le parole più dolci, di affetto e di cura.
Ritrovo le babbucce – papoutsia in greco – le calde pantofole di lana cucite dalla nonna.
Le cerasə – kerasi – raccolte con mia sorella nella gialla campagna nostrana.
La celonə – chelona –, chiamata in causa anche per sfottò: “uè cap’ də celonə”, “ehi testa di tartaruga”.
E ne riscopro altre: aggarbatə, spuenzə, smorzə, adènziə, marangə…
Raccolgo ogni parola e a ognuna ci aggancio almeno un ricordo, impacchetto il tutto e lo metto in valigia, pronta – ma mai abbastanza – a compiere il viaggio a ritroso. I due mari, il girone infernale, le maestose gru, gli ulivi e la lunga linea ininterrotta della rotaia.
Viviana Sebastio