Quando ripensava alla sua infanzia, Naisha aveva la sensazione che fosse iniziata quando lei aveva quattro anni.
Il primo, vivido ricordo, era quello di un vecchio pullman giallastro con cui, assieme alla madre, era giunta per la prima volta nella scuola dove avrebbe vissuto circa quattordici anni della sua vita e che gliel’avrebbe cambiata.
Il cancello nero, in mezzo a due pilastri, si apriva su di un percorso che portava alla struttura scolastica. In effetti un collegio, in mezzo “al nulla”: un panorama cui era abituata; molto verde non coltivato, rare case basse e strade polverose.
Erano molti i genitori che portavano i piccoli in quel luogo che accettava proprio bambini poverissimi. Uno per famiglia. Tutti lasciarono le scarpe fuori l’uscio e furono introdotti in un locale dove li attendevano delle brandine. Vi trovarono i piccoli che erano arrivati l’anno precedente. Vi furono pianti, difficoltà a distaccarsi sia da parte dei grandi che dei piccini, però alla fine ciascuno del gruppo prese la sua strada. I piccoli, accolti dalle allieve più grandi, consolati e trattenuti e gli adulti che girarono le spalle, nascondendo le lacrime.
Naisha ricordava di essere stata cresciuta senza che ci si preoccupasse a quale religione appartenesse o a quale casta. Le avevano, da subito, imposta l’idea che non vi fosse un destino prefissato. Crescendo, lei come gli altri, maschi e femmine, senza differenze, avrebbero potuto modificare il destino delle loro famiglie. Mille anni di sofferenze avrebbero potuto, finalmente, terminare di esistere, quando si sarebbero avviati nel mondo.
La ragazza, invece, era nata in una terra dove il destino, solitamente è attribuito ad una donna chiamata Vidhy Amma (madre del destino), che scrive sulla fronte di ogni bambino la sua sorte alla nascita. In lingua Kannada esiste anche un modo di dire: “haneli bare diddu” Che tradotto diviene “Quello che è scritto sulla fronte”.
Naisha, nella sua esperienza di vita che andava contro ogni logica del suo villaggio, si chiedeva spesso se anche lei avesse qualcosa scritto sulla fronte.
Quando la rimandavano in vacanza al villaggio, laddove raggiungeva la madre (che viveva con la madre), ritrovava la piccola stanza in cui era nata e cercava di vedere se stessa, bambina e la strana fatalità che l’aveva vista scelta per la sua avventura.
Dai quattro anni ai diciotto, aveva trascorso una vita in quella scuola/collegio, laddove viveva a stretto contatto con tanti bambini, maschi e femmine, provenienti, come lei dalla miseria. Tra le sue mura vivevano anche orfani che altrimenti sarebbero stati venduti, e figli e figlie di operai che lavoravano nelle cave e straccivendoli. Lei aveva vissuto l’esperienza del diploma, che aveva segnato un momento magico della sua vita, si era iscritta in una prestigiosa università, laureandosi e specializzandosi, però, ancora in quel momento, laddove a breve avrebbe raggiunto la libertà economica e avrebbe potuto tornare al villaggio per decidere se trovare lavoro in India, oppure restare in Italia, non era affatto certa che il destino, il Karma, un giorno non gliel’avrebbe fatta pagare.
Sapeva di appartenere alla casta degli “intoccabili,” i quali, per tradizione, sono sempre stati collegati ad attività considerate impure, come la concia delle pelli, la manipolazione di cadaveri o le pulizie. Lei apparteneva ai “paria,” che non sono inseriti in nessuna delle quattro caste ufficiali e quindi vanno evitati, emarginati, non vanno “toccati”, come fossero contaminati, e si chiedeva se lo fosse con il corpo, oppure con lo spirito. Quando in passato più volte era rientrata in quel piccolo spazio abitativo che la povertà concedeva loro, trovava la madre e la sorella che lavoravano per fare scatole di fiammiferi con una velocità incredibile. Lei stessa, in passato, lo aveva fatto: le mani piene di colla, al mattino le trovava spellate e toglieva con le dita la parte che veniva via. La madre lavorava in una fabbrica di fiammiferi. Però alcune delle amiche cresciute con lei avevano l’intera famiglia che lavorava nelle cave di pietra, compreso i bambini. Anche se, in teoria, la legge non permetteva il lavoro minorile.
Naisha aveva sempre amato le scienze ed avrebbe voluto diventare ingegnere, però, nel tempo, si era resa conto di non essere proprio brava in matematica, per cui aveva deciso che sarebbe diventata un medico, per poi, invece, decidere per la biologia, che aveva sentito definire “la medicina del domani”. Non amava molto tornare a casa e lasciare la scuola. Il locale dove dormivano era piccolo ed il cibo scarso. Inoltre si sentiva molto a disagio, perché la madre trattava lei differentemente dalla sorellina più piccola, che era obbligata a fare tutti i lavori domestici e studiava in una scuola statale. Darika la guardava quasi con odio. Il locale era anche una cucina, di giorno. Sulle pareti avevano fatto una scaffalatura in legno e vi si poggiava di tutto. La notte, stesa in terra, non riusciva a dormire e a volte, silenziosamente, usciva all’aperto a guardare il cielo.
A scuola avevano una camerata spaziosa che tenevano pulita e i letti erano comodi.
La madre di Naisha si era separata dal marito ed aveva anche un’altra figlia che era restata con lui, che, come uomo, aveva studiato fino a quindici anni. Mentre la madre era praticamente analfabeta. A motivo di ciò, aveva accettato che la figlia si allontanasse da lei: voleva permetterle una vita migliore e sperava, anche, che guadagnando, la figlia, un giorno l’avrebbe aiutata. Naisha si sentiva molto responsabile, perché pensava a tante persone che avrebbero potuto fare qualcosa di bello e utile, se soltanto avessero avuto una possibilità come quella che le era stata concessa.
Lei, dai diciannove anni, si trovava in Italia e i primi tempi aveva trovato difficoltà, perché parlava inglese e non italiano. Appena arrivata aveva avuto modo di iscriversi ad un corso di lingua italiana e soltanto dopo tre mesi era stata in grado di capire meglio quello che accadeva intorno. In realtà sembrava come se fosse stata un inglese trapiantata in Italia. Appena diplomata, sapendo che a Milano c’erano ottime Università, lei, stimolata sempre a cercare il meglio, l’aveva scelta come sede di studio, invece di restare in India. Aveva studiato in inglese perché in tutte le buone scuole dell’India si studiava con quella lingua fin dall’asilo. Nelle scuole statali la lingua dell’insegnamento era il Temil o il Telugu e soltanto dalla quinta elementare si cominciava a studiare l’inglese come lingua ulteriore.
Naisha sapeva bene che in India il sistema della caste risaliva a migliaia di anni e non sarebbe stato facile uscirne. Le persone andavano divise in quattro gruppi: i brahmin, gli kshatrya, i vaishya e gli shudra e sotto di loro c’erano i dalit, coloro che venivano definiti “gli intoccabili”, cui erano affidati i compiti più sporchi, economicamente sconvenienti e faticosi. Questo non perché lo prevedesse la costituzione, che sosteneva come il sistema della caste in India non dovesse esistere, mentre invece esisteva e come, specialmente nelle aree più remote e rurali e nei villaggi.
Naisha non poteva dimenticare cosa era accaduto quando ebbe computo i tredici anni e oltre tutto era divenuta matura sotto il profilo di donna. Fu in quel periodo che venne mandata in vacanza a casa, laddove quel passaggio dalla infanzia alla pubertà sarebbe stato festeggiato con quello che gli antropologi chiamano “riti di passaggio”. Lei non avrebbe voluto rientrare, né parteciparvi, perché la nonna, da sempre, insisteva che sposasse un suo figliolo. In effetti suo zio. Aveva tante volte rifiutato, sostenuta dal fatto che non viveva a casa. Quando rientrò per festeggiare la sua maturità di donna, vennero invitati tutti i parenti e la madre spese anche quello che non poteva permettersi e non mancò l’Hara bhara kebab, in grande quantità, che veniva mangiato con le mani. Per lei non poteva mancare un indumento drappeggiato: il sari e il trucco, oltre a complesse apparecchiature sui capelli e ornamenti. Doveva apparire bella, ricca e desiderabile.
Si sentiva in pericolo e si salvò dal dovere di sposarsi soltanto perché rientrò alla scuola.
Da bambina, nei suoi ritorni a casa, non percepiva molto la differenza tra i due mondi: quello scolastico e quello familiare. Giocava con gli amici, insegnava qualcosa alla sorella ed era contenta di essere con la mamma. Crescendo, però, divenne sempre più difficile trovare un bilanciamento tra le “due vite” che doveva vivere. Si sentiva infelice in entrambi i ruoli e in colpa verso la famiglia, con la sensazione di avere un grosso debito da colmare. Tutti si aspettavano troppo da lei. Fortunatamente riuscì a raggiungere quei buoni voti che le avrebbero permesso, al diploma, di scegliere la migliore università possibile. Fu un grande dolore per la mamma quando comprese che intendeva recarsi in Italia per studiare, mentre alla scuola apprezzarono la sua decisione, con la promessa che il lavoro lo avrebbe trovato in India, per tornare ad aiutare i suoi familiari e la sua gente.
Lei sapeva che le persone agiate, dovunque si trovassero, avevano una assistenza sanitaria che mancava assolutamente ai suoi parenti, che si erano anche indebitati per fare sposare la sorella, la quale aveva, naturalmente, lasciato la scuola dopo la terza media. Lei sapeva di dover raggiungere l’eccellenza, altrimenti sarebbe stata schiacciata da un mondo crudele ed ingiusto. Le era stato inculcato che doveva guardare oltre la propria individualità, per poter pensare a chi aveva lasciato indietro. Sapeva di avere in sé una forza non comune e, con la specialistica in biologia, sarebbe tornata a casa e avrebbe trovato lavoro in un grande ospedale. In India.
Ecco perché, benché si fosse innamorata di un compagno di studi, non poteva assolutamente lasciarsi portare da quel sentimento.