Reminiscenze – Melina Franco
«Come ti chiami?»
…l’ho dimenticato.
Era da molto che vagavo in quel bosco, ma non avevo incontrato anima viva sul mio cammino.
«Come ti chiami?»
Ancora non risposi. Non vedevo nessuno e intanto continuavo a inoltrarmi nella macchia.
L’aria era fresca, una brezza leggera smuoveva le fronde degli alberi e trasportava con sé un intenso profumo di fiori. Il riverbero del sole, che tremolava e a tratti dipingeva d’oro l’erba smeraldina, faceva pensare di essere sempre nelle ore più calde della giornata.
«Come ti chiami?» chiese ancora la voce, che sembrava provenire dalle chiome delle possenti farnie secolari che mi attorniavano.
Deglutii e continuai a seguire il sentiero.
Ho dimenticato il mio nome compresi infine, sentendo montare l’inquietudine. Sono in questo posto da così tanto tempo…
«Come ti chiami?» insistette il bosco con voce profonda. O forse era stato il vento.
«Non lo so» mormorai. Avevo dimenticato molte cose.
«E dov’è che stai andando?» domandarono allora gli alberi, o forse le acque del fiume che scorreva poco lontano da lì, del quale di tanto in tanto mi giungevano alle orecchie sibili e sciabordii.
Deglutii, rallentai e finalmente mi fermai.
«Non so più come mi chiamo né dove sto andando» ammisi alzando gli occhi al cielo, di un azzurro accecante. «Non ricordo più neanche chi sono.»
«Ah… probabilmente non ha nessuna importanza» gli suggerirono le voci.
Forse no. O almeno non più.
Mi si seccò la bocca e d’un tratto mi accorsi di avere molta paura. Intanto il bosco non era più un bosco, ma piuttosto una palude, dove il sole tramontava rapidamente. Il cielo andava dipingendosi di rosso e poi di viola. Ancora qualche minuto e sarebbe calata la notte. Una notte che sapevo inesorabile e gelida, lunga tutta quanta l’eternità.
Per qualche motivo che ancora mi sfuggiva, ricordare il mio nome mi apparve improvvisamente come la mia sola possibilità di salvezza. Angosciato, mi guardai intorno e decisi di abbandonare il sentiero per infilarmi a est, nella boscaglia più fitta, dove poco più avanti mi attendeva una radura, luogo che sentivo di dover raggiungere a qualsiasi costo.
Mi incamminai. Querce e frassini cedettero subito il posto ad alberi deformi e cespugli di rovi, e il tappeto d’erba scintillante fu sostituito da muschio e fanghiglia, che mi si appiccicò alle caviglie mentre, imperterrito, arrancavo verso la radura che avevo immaginato, determinato a raggiungerla prima che calasse definitiva l’oscurità.
«Non ti affannare» disse suadente la voce, che questa volta proveniva dalle polle di acqua stagnante che mi circondavano. «Nulla ha importanza. Distenditi qui a riposare.»
Raggelato scossi la testa, serrai le labbra e cominciai a correre.
Sbucai nella radura mentre il sole cremisi moriva a ovest, dietro una stuoia di montagne appuntite che non ricordavo di aver notato prima, e mi fermai a riprendere fiato ai margini dello spiazzo, incapace di staccare gli occhi dall’enorme specchio ovale che vi era sospeso nel centro, reliquia senza tempo nei meandri dell’anima.
Intenzionato a non offendere quel luogo sacro, mi tolsi le scarpe e le gettai nella selva, poi, trafelato, avanzai verso lo specchio, intorno al quale riluceva una cornice di legno dorato, su cui scoprii incise parole che conoscevo, versi di canzoni, nenie e preghiere, reminiscenze di un’esistenza della quale sentivo riaffiorare, a poco a poco, l’appartenenza.
Mentre mi avvicinavo allo specchio e le ombre incombevano su di me, pronte a inghiottirmi nella loro notte perenne, compresi che assieme al mio nome avevo dimenticato anche il mio volto, e mai come in quel momento desiderai potermi rivedere; desiderai poter baciare mia moglie e stringere al petto le mie figlie, ignare di quanto stava accadendo.
Dapprincipio, nello specchio non vi furono che tenebre. Il terrore mi attanagliò le viscere e mi sentii perduto, ma poi, lentamente, in quella polla scura prese a delinearsi un riflesso e finalmente incontrai i miei occhi.
L’uomo nello specchio stava piangendo. Sembrava esausto. Aveva i capelli scarmigliati e la barba troppo lunga. Era nel suo bagno, nella sua casa, e fra le mani teneva una lama da barbiere. Doveva essersi procurato un graffio sulle dita, c’era qualche goccia di sangue nel lavandino, ma niente di più. Provai molta pena per lui, per me.
Restammo a fissarci immobili per un istante infinito e temetti che il me dall’altra parte non riuscisse a vedermi, invece, poco dopo, mi resi conto che non solo mi vedeva, ma mi aveva anche riconosciuto e stava accennando un sorriso.
In quel momento il cuore mi si riempì di gioia e fui sommerso dalla piena consapevolezza del mio essere. Ricordai ogni cosa e gridai il mio nome con quanto fiato avevo in corpo, lo ripetei fino a squarciare l’oscurità e poi sfiorai la superficie riflettente per ricongiungermi all’uomo fuori dallo specchio.
Rimasi in bagno per parecchi minuti prima di decidermi a uscire.
Mia moglie era in cucina assieme alle bambine e sembrava preoccupata.
«Ti senti bene?» mi domandò, squadrandomi. Si accorse del taglio alla mano e gli occhi le si riempirono di lacrime.
Le sorrisi e l’abbracciai. «Mai stato meglio» la rassicurai. «Adesso però usciamo. Fuori è ancora giorno e rischiamo di perdere tutta la giornata. Ho buttato via già troppo tempo.»
Lei mi strinse più forte, poi ci staccammo e sentimmo le bambine sogghignare.
«Cosa avete da ridere, voi?» dissi, ricambiando i loro sorrisi.
«Non hai le scarpe, papà» sghignazzarono all’unisono «non puoi uscire di casa, senza.»
Mi guardai i piedi nudi e feci spallucce.
Le scarpe erano rimaste nel bosco, ma io ero libero e potevo andare dappertutto.
pubblicato nella rivista “Verde età” n. 63 anno 2018
L’autrice
“Melina Franco è nata a Napoli nel 1988 e vive ancora nel centro storico della città partenopea.
È una giovane autrice di racconti di genere fantastico, horror e surreale.
Scrive occasionalmente per la rivista mensile “Verde Età” e ha pubblicato uno dei suoi racconti in un’antologia fantasy, a seguito della vittoria di un concorso indetto da Historica Edizioni.
Attualmente lavora come editor freelance ed è in procinto di pubblicare la sua prima raccolta di racconti fantasy.”