di Giuseppe Antonio Martino
Dopo la morte di suo padre, Rocco, ogni anno, quando ad agosto tornava in ferie al paese, per prima cosa correva al Bosco per vedere in che condizione fosse quel pezzo di terra che lui, da bambino, aveva coltivato con tanto amore, ma anche con una zappa che pesava almeno dieci chili e che non aveva manco la forza di alzare in aria. A scuola ci andava poco allora e, al maestro che gli chiedeva il motivo delle sue continue assenze, con l’aria di chi non aveva tempo da perdere, rispondeva che, quando il padre andava a giornata per zappare la terra di qualcuno dei proprietari del paese, toccava a lui badare alla loro roba: in quell’orticello sul greto di una fiumara, che suo padre aveva ereditato da suo nonno al quale, a sua volta, l’aveva lasciato il bisnonno, ogni anno, facevano tanti fagiolini, zucchine e pomodori che bastavano per tutta l’estate alla loro famiglia e ne davano pure ai vicini.
Ora, dopo trent’anni di emigrazione a Torino, non ci andava più scalzo come quando era bambino, ma con un bel paio di stivali e una tuta con sulle spalle scritto “FIAT”, anche se la roncola per tagliare le erbe e le spine era rimasta la stessa, forse un po’ arrugginita, ma ci pensava lui, con la vecchia mola di pietra, a renderla lucente come uno specchio e tagliente come un rasoio da barbiere, poi ci metteva una giornata buona per rendere quel pezzo di sabbia pulito come piazza Castello a Torino, senza manco un filo d’erba.
Per lui era un rito dedicare, ogni anno, quella giornata di ferie alla sua terra, anche se delle ulive che producevano gli alberi che aveva piantato suo padre, ormai da anni, non ne coglieva manco un coccio: forse ne aveva bene qualcun altro o se le mangiavano gli uccelli.
Quel vecchio orto era, con la casa, tutto ciò che gli era rimasto in quel paesino sperduto dove era nato. La casa l’aveva aggiustata alla meglio, tanto doveva abitarci solo un mese all’anno: aveva costruito il bagno e rifatto le due stanze del primo piano; il piano terra, che suo padre usava come stalla per l’asino, lo aveva trasformato in monolocale con salotto e angolo cottura.
Ai suoi colleghi di lavoro, orgoglioso di quella proprietà in Calabria, era solito dire:
— Se viene la crisi e al Nord non c’è più lavoro io, al mio paese, avrò sempre un tetto sulla testa e pure un pezzo di proprietà dove produrre quanto basta per dare da mangiare alla mia famiglia.
Di vendere quel pezzo di terra non gli era mai passato manco per l’anticamera del cervello: era il suo porto sicuro, il luogo, nel mondo, che più gli offriva sicurezza, l’angolo in cui rifugiarsi con il pensiero nelle fredde serate piemontesi quando, uscito da Mirafiori, in motorino, raggiungeva via Sant’Ottavio dove, al civico 20, aveva trovato un buco di casa.
Suo figlio, nato e cresciuto in Piemonte, non aveva mai capito come mai lui tenesse tanto a quel fazzoletto di sabbia e quando, dopo tante insistenze, era andato a vedere quella proprietà, si era convinto che era meglio venderla per far riposare il cervello di suo padre che quasi ogni sera, pure durante la cena, quando erano nella loro casa di Torino, correva con il pensiero in quell’angolo sperduto pieno di spine.
L’occasione buona arrivò nel mese di marzo del Duemila, quando decise di sposarsi: confessò al padre che i soldi per il matrimonio non gli bastavano è gli chiese di vendere quel pezzo di terra che, tanto lontano dalla città in cui vivevano, era diventato solo un peso.
Per Rocco fu una pugnalata, ma si rese conto che non aveva altra via per soccorrere il figlio che, anche se da qualche anno abitava da solo, era sangue del suo sangue.
Lui, da buon meridionale, non se la sentiva di fare come i piemontesi e andare al matrimonio come un invitato: doveva aiutarlo come suo padre aveva aiutato lui quando era partito con una valigia di cartone dalla stazione di Gioia Tauro senza sapere se al Nord avrebbe veramente trovato lavoro, come gli avevano detto … E quanto ne aveva passate quando, in quella città di Torino, alla ricerca di un buco dove dormire, vedeva solo cartelli con scritto “Affittasi non a meridionali”.
― Che abbiamo fatto noi calabresi a questi piemontesi che ci odiano tanto? ― pensava ― Io a scuola sono andato poco, ma ricordo che il maestro ci diceva sempre che il padre della Patria era piemontese e il suo nome mi è rimasto impresso perché la via centrale del mio paese si chiama “Via Vittorio Emanuele II”, come quel re che era andato incontro a Garibaldi che ci aveva liberati da quei morti di fame dei Borboni.
― Come mai prima ci hanno liberato con tanto amore e ora ci trattano con disprezzo, come se fossimo negri dell’Abissinia? ― si chiedeva spesso.
Quei primi tempi passarono e, impiegato alla Fiat, perse molto presto quel brutto accento calabrese e cominciò a parlare come i torinesi, ma soldi, con una famiglia sulle spalle, ne fece pochi.
Non sapeva come aiutare suo figlio: gli unici suoi averi erano la casa e la terra che aveva al paese.
Prese la decisione è partì. Arrivato al paese corse al bosco e, sulla quercia che stava alla testata della sua proprietà mise un avviso con sopra scritto “VENDESI”.
La sera stessa Nino Calasciò che, accanto al suo, aveva pure lui un altro pezzo di terra grande anche quello quanto un fazzoletto, bussò alla sua porta: gli disse che era interessato all’acquisto della sua proprietà, avanzando, tra l’altro, diritti di prelazione perché proprietario limitante.
Non vollero parlare di prezzo, ma decisero di delegare don Pasqualino il geometra a preparare le carte necessarie, prima di andare dal notaio a Sant’Eufemia d’Aspromonte.
Il giorno dopo non era ancora suonato il mezzogiorno quando don Pasqualino si presentò a casa sua con un figlio di carta in mano: ― ecco la visura del foglio 19 del catasto, dove risulta la particella 35 che voi volete vendere ― gli disse e subito dopo aggiunse ― L’appezzamento olivetato è di 28 are e 40 centiare, ha un reddito domenicale di lire 35.500 e agrario di 36.920. Il fatto però è che oltre a voi risultano altri quindici intestatari e, cosa più importante, non è di vostra proprietà ma voi ce l’avete in enfiteusi.
La faccia di Rocco era diventata di mille colori, aprì la bocca ma, per qualche secondo, che gli sembrò un’eternità, non riuscì a dire manco “Cristo aiutami”. Appena si riprese, con gli occhi spalancati, cercò di ripetere quella parola che gli sembrava turca.
― Enfi… che?
Il geometra cercò di spiegargli, ripetendo, come un libro stampato, una tiritera che aveva letto o qualcun altro aveva ripetuto, prima, a lui:
― L’enfiteusi è un diritto di godimento su un fondo agricolo di proprietà di un altro. Chi coltiva il fondo, in questo caso voi, ha il pieno godimento, ma ha il dovere di migliorarlo…
― Non è vero niente ― lo interruppe, rosso in volto il povero Rocco ― mio padre questo fondo lo ha avuto in eredità da mio nonno e mio nonno da mio bisnonno. Ce lo siamo passati da padre in figlio non so da quanti secoli.
― È vero che da più cento anni lo coltiva la vostra famiglia, ma non potete venderlo — gli rimbeccò don Pasqualino, poi aggiunse ― Io non so spiegarvi bene come sono andate le cose, ma se venite con me, davanti al bar c’è il professore Marturano che può spiegarvi la storia di questa faccenda. Come voi, in paese, ci sono altre cento persone he si sentono proprietarie di un pezzo di terra che non è loro.
― Che cazzo mi deve dire Marturano? Lo so io che il fondo me lo ha lasciato mio padre ― disse subito Rocco, ma poi, quasi sopra pensiero, aggiunse ― Andiamo a sentire che ha da dire quell’ubriacone che sta sempre seduto davanti al bar… ma per me dice solo cazzate pure lui, anche se è andato a scuola.
― I due si avviarono verso il centro del paese e, incontrato il prof. Marturano, gli si avvicinarono.
― Professore — lo chiamò don Pasqualino — potete spiegare a Rocco com’è il fatto delle terre in enfiteusi e perché non può vendere quel pezzo di sabbia che gli ha lasciato suo padre al Bosco?
Il prof. Marturano prese a braccetto Rocco e cominciò:
― Non sei il primo a scoprire che il pezzo di rocculascecchi che ti ha lasciato tuo padre non puoi venderlo.
Ora ti spiego: quando, più di duecento anni fa, Napoleone arrivò in Calabria, dopo la grande Rivoluzione in Francia, la prima cosa che fece fu cacciare i feudatari e i preti da tutte le terre di cui erano proprietari, ma non fece in tempo di darle ai poveri perché i potenti dell’Europa cacciarono pure lui dal trono imperiale.
Ne ebbe bene il re di Napoli quando tornò sul trono, ma poi a qualcuno venne in mente che bisognava mandare tutto a carta di quarantotto e, prima dell’arrivo di Garibaldi, i gnuri, mangiapane a tradimento che avevano cominciato a darsi da fare perché non gli bastava più quello che avevano, pensarono che, siccome il re aveva altri pensieri per la testa, potevano fottersi quelle terre che, diventate del governo, dicevano che erano del demanio.
Cominciarono a dire che chi voleva un pezzo di terra per piantare qualcosa poteva andare a zappare al Bosco, che una volta era del convento di Sant’Elia.
Tuo bisnonno e tanti altri poveracci, che credevano a tutto quello che dicevano i galantuomini, armati di accetta e di zappa, corsero ad impossessarsi di un pezzo di quella sabbia che era buona solo per cuocere la calia, mentre loro, i ricchi, mandarono i loro leccapiedi a coltivare i Piani della Corona, le terre più grasse, quelle migliori, e si fecero padroni come se gliele avevano lasciate i loro padri.
Il Demanio fece, contro gli usurpatori, una causa che durò anni e anni. Alla fine i ricchi, che sapevano come stavano le cose, riuscirono a imbrogliare le carte e diventarono proprietari, i poveracci invece continuarono a zappare i tanti pezzetti di rena che avevano occupato pensando di avere, ormai, gli stessi diritti dei loro padroni.
E siamo arrivati ai nostri giorni: ora molti dei pronipoti di quei poveracci che pensavano solo a zappare, non avendo più il bisogno di allora, vorrebbero vendere, come stai cercando di fare tu, caro mio, ma si accorgono che nel nostro paese, allora come ora, la giustizia non esiste e rimangono a bocca aperta, con il culo rotto e senza cerase.
Hai capito come è la storia? Ora, se vuoi venderti la terra, prima devi andare al comune la devi comprare e poi, se vuoi, te la puoi vendere, ma prima devi cacciare i quattrini. Hai capito?
― Ma che cazzo dite! ― esclamò Rocco ― Quella terra è mia perché me l’ha lasciata mio padre e non ci sono santi!
― Va’ dal notaio allora, e vedi che ti dice ― concluse il professore.
Rocco non poteva capacitarsi: Marturano poteva anche essere un ubriacone, ma certo quella cosa da qualche parte l’aveva letta.
Pensò di andare al municipio per chiedere all’impiegato dell’ufficio tecnico se quanto gli avevano raccontato era una cavolata o se c’era qualcosa di vero.
La mattina dopo si presentò all’ufficio tecnico del municipio, ma pure Ciccillo il geometra, che era stato suo compagno di scuola alle elementari, quando ci andava, dopo aver controllato i documenti, gli confermò quanto gli aveva detto il professore, anche se con parole diverse: — La particella 35 del foglio catastale 19 risulta essere del pubblico demanio, anche se goduta in enfiteusi dalla tua famiglia
― Vuol dire che non posso venderla? ― gli rimandò il povero Rocco.
― Per poterla vendere è necessario che tu la riscatti. Se vuoi posso fare il calcolo di quanto ti verrebbe a costare ― gli rispose l’impiegato e, senza perdere tempo, si sedette alla scrivania davanti al computer.
Rocco lo guardava con la schiuma che gli usciva dalla bocca, ma senza fiatare. Dopo circa dieci minuti, Ciccillo si avvicinò nuovamente a lui con un foglio stampato.
― Ecco ― gli disse ― per riscattare il podere dovresti pagare un migliaio di euro più o meno. Un calcolo più preciso lo farò quando presenterai una richiesta scritta.
― Mille euro? Ma non li vale la terra, specialmente di questi tempi che non vuole zappare più nessuno ― esclamò Rocco prima di uscire maledicendo il governo e tutti i politici ladri.
Nel pomeriggio se ne stava seduto davanti alla porta di casa per godersi il sole di marzo, che a Torino non sanno manco che è e, chiacchierando con i suoi vicini, naturalmente, si mise a raccontare quello che gli stava capitando e come aveva scoperto che quel pezzo di terra non era completamente suo in quanto il governo ladro, non capiva bene perché, vantava dei diritti.
Comare Rosa a Nnurca si intromise nel discorso:
— Mio genero Domenico, il marito di Rosa quella che, quando eravate bambini, giocava con te nella ruga, durante l’annata olearia, commercia olive e olio e ha le mani in pasta anche nella compravendita di terreni. Se vuoi lo chiamo perché forse può aiutarti come ha fatto con tanti che, in paese, hanno avuto problemi a vendere la loro terra.
Rocco conosceva da quando era piccolo quella vecchia che lo aveva visto crescere e, dopo averla guardata fissa negli occhi, sicuro che voleva aiutarlo, le disse di chiamarlo a suo genero ché, se era veramente un esperto, voleva sentire il suo parere.
― Micu o Micu ― gridò Rosa e Domenico comparve sulla porta della sua casa in maniche di camicia, ma all’invito della suocera si sedette pure lui davanti alla porta di Rocco che raccontò, pure a lui, per filo e per segno quella sventura che gli era capitata tra capo e collo.
Domenico fece l’elenco di quelli che si erano trovati a non poter vendere il loro podere per lo stesso motivo e aggiunse:
― Fino a qualche anno fa era possibile fare la voltura facilmente, beato chi l’ha fatto! Ma la maggior parte di quelli che hanno un pezzo di terra al Bosco, da qualche anno, se cercano di vedere si trovano davanti a un muro per una legge che i politici hanno fatto per fottere soldi.
― Governo ladro! Sempre ai più poveri cerca di spolpare. Non si vergognano questi deputati infami, magia pane e tradimento e ladri ― si sfogò Rocco con le lacrime agli occhi.
― Che volete fare ― gli rispose Mico ― Dio dà il biscotto al ricco e al povero l’appetito. È stato sempre così qua da noi. Voi che siete stato tani anni a Torino vi siete dimenticato!
― Ma io il biscotto me lo guadagno ogni giorno sudando ― gridò incazzato Rocco ― qua stanno negando un diritto di possesso secolare. Ma che scherziamo?
― No, no con il Governo non si scherza: chi deve avere può aspettare chi deve dare, deve dare e subito se no ti mandano l’usciere per il pignoramento. Qua così si ragiona ― disse la vecchia di comma Rosa ― amaro chi ci incappa!
― L’unica cosa che potete fare ― riprese il discorso Mico ― è quella di vendere il legno degli alberi che ha piantato vostro padre … se non vi denunciano, perché manco gli alberi si possono tagliare.
― Come, non posso fare quello che voglio con gli alberi che mio padre buonanima ha piantato e cresciuto abbeverandoli con il suo sudore?
― Non si potrebbe, ma facendo finta di fare un cambio di coltura o una forte potatura per dare aria agli alberi le cose si possono aggiustare e io posso aiutarvi: vero che oggi non conviene più, ma per voi posso vedere se troviamo qualcuno che è interessato.
― Di quegli olivi io non me ne faccio niente perché, da anni ormai, le olive le raccoglie chi vuole. A dire la verità mi duole il cuore pensando alle fatiche di mio padre, ma potrei venderli se riesco a ricavare qualcosa.
― Che vi posso dire? ― continuò Mico ― Io il vostro pezzo di terra lo conosco e ci sono una decina di alberi non molto grandi. A occhio e croce, facendo un calcolo di tre euro a quintale, con il legno potete fare dai 3.500 a i 4.000 euro, non di più.
― Un’elemosina ― esclamò Rocco sconsolato, poi aggiunse ― potrei vendere la legna e con i soldi riscattare il fondo prima di venderlo. Ma mi conviene?
― Se fate quattro conti, non vi conviene affatto ― gli rimbeccò Mico ― e correte pure il rischio che vi beccate una denuncia.
― Lasciamo le cose come stanno…, a mio figlio lo aiuterò in altra maniera, ma di quello che mi ha lasciato mio padre non vendo niente ― concluse.
Il giorno dopo se ne tornò a Torino: suo figlio continuò a chiamarlo testa dura calabrese e a rimproverargli di essere attaccato a un pezzo di sabbia che non valeva niente, ma lui almeno, in fabbrica, continuò a dire che in Calabria aveva una proprietà fondiaria e una casa per le vacanze.