«Quella con la Lega è una stagione politica chiusa che non si potrà riaprire più per quanto mi riguarda». Quattro giorni dopo le dimissioni da presidente del Consiglio, Giuseppe Conte arriva al G7 di Biarritz e si riprende la scena. Solo poche ore dopo il «no» del leader dem Nicola Zingaretti a un bis del suo incarico di governo – condizione richiesta da Luigi Di Maio per avviare un governo giallorosso – mentre tutti discutono di lui, Conte chiude con il partito di Matteo Salvini, ma non con quello di Zingaretti. «Non credo sia una questione di persone, ma di programmi. Quindi quello che posso augurarmi per il bene del Paese è che i leader delle forze politiche lavorino intensamente, lavorino bene», pesa le parole Conte. Ma Matteo Salvini non si rassegna. Ha continuato anche ieri a scrivere messaggi via Whatsapp a Luigi Di Maio (e a riceverli), come avvenuto il giorno prima, nel tentativo ostinato di riconquistarne la fiducia. Col capo del Movimento insiste: «Ci sono le condizioni per ricominciare dai vostri dieci punti e riscrivere il contratto». L’offerta delle premiership resta sul tavolo, non c’è bisogno di ripeterla. Tutto vano, forse. La chiusura definitiva di Conte lascia pochi margini alle speranze di via Bellerio. «Lo stesso Conte che per un anno ci ha aiutato a fermare i barconi e a chiudere i porti, in una settimana passa dalla Lega al Pd? Che tristezza», è la replica in serata delle fonti della Lega. E adesso torna in mente a Matteo Salvini la serata cruciale dell’8 agosto. Quando raggiunge il premier per comunicare che non intende andare avanti. In quell’occasione – viene riportato solo ora – il capo del governo avrebbe suggerito al vicepremier di «non chiamare Di Maio», impegnandosi a ricucire piuttosto lui lo strappo. Impegno che, è la “certezza” maturata ora dal leader leghista, è stato disatteso. Alla luce dei fatti, questa la conclusione, sarebbe lui dunque il vero “traditore” nella partita della crisi. Colui che avrebbe “tramato” per sostituire la Lega col Pd. È l’ora dei veleni e degli stracci, è evidente.

Il Pd studia nomi e dossier per il tavolo con i 5 Stelle. Barometro stabile, tendente al variabile. Al Nazareno, sede nazionale del Pd aperta anche nel weekend, ormai sono a corto di metafore sullo stato dell’arte della trattativa con il M5S. Il segretario Nicola Zingaretti, ieri ad Amatrice per la cerimonia del terzo anniversario del terremoto, ha tenuto il punto davanti all’ultimatum di Luigi Di Maio su un Conte bis «prendere o lasciare»: «Abbiamo chiesto un governo di discontinuità con quello che ci ha visto oppositori». E Conte, è il sottotitolo, è stato il garante dell’alleanza populista-sovranista M5S-Lega. Zingaretti, poi, ha detto di essere «sempre ottimista» chiedendo però ai grillini «rispetto reciproco»: «Mi auguro che non esista l’ipotesi del doppio forno», cioè della doppia trattiva con la Lega. Cosi nella seconda giornata delle cinque concesse dal capo dello Stato, dietro le quinte i big della maggioranza del partito si sono dati appuntamento in una casa del centro di Roma. E alle 18 l’agenzia Ansa ha potuto verificare che da quell’uscio privato sono transitati, uno dopo l’altro, Paolo Gentiloni, Dario Franceschini, Marco Minniti, Paola De Micheli, Andrea Orlando, Maurizio Martina, Piero Fassino e Gianni Cuperlo. All’ordine del giorno «il punto della situazione» dopo l’incontro Di Maio-Zingaretti per ripetere lo stop al M5S che chiede con insistenza Conte a Palazzo Chigi. Il vertice tra i dirigenti Pd sarebbe anche servito a fare il punto su una possibile lista dei ministri dem. I renziani non c’erano. “No a Conte, ma, soprattutto, mai e poi mai a Di Maio premier”. Matteo Renzi ha idee piuttosto chiare sulla struttura ipotetica del nuovo esecutivo, un governo che dovrebbe essere consegnato alla guida di una figura super partes, come quelle del magistrato, ed ex presidente dell’Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone o della vice presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia. E lui? L’ex primo ministro amerebbe collaborare, da esterno, con il ministro destinato a occuparsi di industria e aziende, cioè – in un governo destinato a rappresentare sop