Antonio Troise
La prima crisi di governo dell’era gialloverde è, di fatto, ufficialmente aperta. Ma, al di là dei toni e delle modalità, si tratta dell’esito, a dir poco scontato, di un’alleanza innaturale fra due partiti che, fin dall’inizio, hanno avuto solo una cosa in comune: il successo elettorale. Per il resto, le distanze fra i due azionisti di maggioranza dell’esecutivo sono sempre state evidenti. A cominciare, ovviamente, dal tema che ha innescato l’esplosione delle ultime ore, la Tav. Un argomento che, nella fretta di concludere l’ormai famoso “contratto” essenziale per infilare il portone di Palazzo Chigi, Di Maio e Salvini, liquidarono con una formula a dir poco equivoca, parlando di un progetto da “ridiscutere”. Tutto bene, per carità. Solo che i Pentastellati volevano ridiscutere tutto per non fare niente e chiudere, definitivamente, il tunnel fra Torino e Lione. Mentre per la Lega, dall’altra parte, ridiscutere significava ritoccare il progetto con l’obiettivo di realizzare un’opera ritenuta essenziale per la sua base elettorale nel Nord.
L’equivoco, in effetti, ha retto fino all’ultimo, fra nomina di esperti e insediamento di commissioni, con tanto di analisi costi-benefici e l’avvio di una trattativa, sia pure informale, con il socio francese. Ma ora che bisogna decidere la situazione, che il tempo si è consumato e che, entro lunedì, bisogna avviare le gare per non perdere almeno 300 milioni di fondi europei, la situazione è precipitata. Facendo emergere tutti i nodi di una maggioranza che nessun collante politico può davvero tenere insieme. E che rischia di provocare danni pesanti al Paese. Qualche mese fa il presidente della Bce, Mario Draghi, mentre lo spread saliva alle stelle e il governo litigava con l’Ue sulla manovra economica, sentenziò senza mezzi termini che facevano più danni al Paese reale le parole di questo o quel ministro che gli atti concreti dell’esecutivo. Ora siamo davvero arrivati ad un punto di non ritorno. Il leader della Lega, Matteo Salvini, avrebbe voluto arrivare alle Europee senza ostacoli sulla sua strada, convinto di fare bottino pieno incassando anche il dividendo generato dalle incertezze e debolezze dei pentastellati. Ora naturalmente, bisognerà vedere se la crisi di governo annunciata da Buffagni arriverà al Quirinale o si fermerà prima, magari per un ultimo rigurgito di “realpolitik”, con i riti e le bizantinerie della politica della Prima Repubblica. Al di là di quello che succederà nei prossimi giorni e sulle etichette istituzionali, un governo che non riesce a decidere probabilmente non solo è in crisi. Ma è già finito. Dimostrando nei fatti che non basta un contratto sottoscritto davanti a un notaio per costruire un’alleanza politica. E, soprattutto, per governare un Paese.