Alessandro Corti
Fa un certo effetto osservare le ragioni della scienza piegate alle alchimie della politica. Ma tant’è. Il risultato è stato il balletto di aperture e chiusure, quell’Italia a chiazze rosse o arancione a giorni alterni disegnata nell’ultimo decreto del governo. Senza contare, poi, l’incertezza che fino all’ultimo ha tenuto con il fiato sospeso genitori, studenti, insegnanti e personale non docente: un esercito di 8 milioni di italiani che fino all’alba di ieri, non sapevano se le scuole riaprivano il 7, come annunciato dal governo, o, addirittura, a fine mese, come avevano proposto autorevoli esponenti della maggioranza e un nutrito gruppo di Governatori. Un braccio di ferro che si è prolungato per molte ore nella notte di Palazzo Chigi. Da una parte il premier, Giuseppe Conte, che ha sostenuto la linea della ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, convinta sostenitrice della necessità di tornare in classe il giorno dopo l’Epifania. Dall’altra parte, invece, il Pd, che con il capodelegazione, Dario Franceschini, ha insistito per il rinvio al 15 gennaio. Al centro, la responsabile delle Infrastrutture e dei Trasporti, Paola De Micheli, finita più volte sul banco degli imputati per i ritardi nel piano di potenziamento di bus e metropolitane, essenziale ancora più dei banchi scolastici per garantire la ripresa in sicurezza delle lezioni.
Alla fine, come nelle migliori tradizioni di Palazzo, è prevalsa una linea di compromesso: si rientra a scuola, almeno per quanto riguarda le superiori, dall’11. Elementari e medie riprendono, invece, dal 7. Ma anche queste date, per la verità, sono solo orientative, dal momento che ogni singola regione si appresta ad agire in autonomia, rivedendo fino all’ultimo il calendario. Non proprio una bella pagina di coerenza.
Certo, la partita sulla riapertura delle scuole si è intrecciata con l’altra, più delicata, sul futuro dell’esecutivo. Con tanto di ipotesi di una crisi al buio dagli esiti imprevedibili. Eppure, almeno sul fronte della lotta all’epidemia, sarebbe davvero stato il caso che i partiti, tutti, facessero un passo indietro a vantaggio dell’interesse generale. Il Paese, insomma, già messo in ginocchio dal Covid, non può sopportare anche il peso dell’incertezza politica. Soprattutto quando le tensioni nella maggioranza si scaricano sulla vita quotidiana di milioni di persone.
Superata la questione scuola, sul tavolo ci sono poste non meno importanti. A cominciare da quella sui 209 miliardi da investire con il Recovery Plan. E’ una sfida decisiva per il futuro del Paese, essenziale per uscire dalle secche della recessione. Sarebbe l’ennesima occasione sprecata se anche in questo caso le forze politiche non riuscissero a fare un salto di qualità nel confronto assicurando, davvero, decisioni coerenti e non di parte. L’esatto contrario, insomma, di quello che è avvenuto per la scuola.