Di Indro Montanelli
Aldo Moro, classe 1916 – sottosegretario, dunque, a soli trentadue anni – era nato a Maglie, in provincia di Lecce, da genitori entrambi insegnanti. La famiglia si trasferì prima a Taranto e quindi a Bari dove il ragazzo ebbe la sua formazione culturale e morale. Due qualità dimostrò subito in modo spiccato: la religiosità – spinta fino al bigottismo – e una capacità straordinaria di applicazione allo studio. A tutti i livelli scolastici ebbe splendidi voti. I suoi compagni Io ricordano come un ragazzo gentile, distaccato, scettico, che non rifiutava mai ai compagni somari il suo aiuto, dato senza farlo pesare.
[aesop_quote type=”block” background=”#0000ff” text=”#ffffff” align=”left” size=”1″ quote=”Sottile, un po’ molle, malinconico, apparentemente timido, tenace e ambizioso, si fece notare presto.” parallax=”off” direction=”left” revealfx=”off”]
Entrato in università (facoltà di legge) si affiliò al GUF, l’organizzazione universitaria fascista, e alla FUCi, l’organizzazione universitaria dei cattolici: due universi giovanili tra i quali s’erano avuti momenti di aspra battaglia, ma che negli anni della guerra d’Etiopia e del massimo consenso al fascismo convivevano, e spesso collaboravano. Infatti Moro «cresceva» nel suo GUF, che rappresentò più volte ai Littoriali, e «cresceva» nella FUCI barese, della quale assunse la presidenza nel 1937, in attesa di diventarne – il che accadde presto – il presidente nazionale. Difensori d’ufficio di Moro affermarono, quando i missini nel 1960 lo presero di petto come voltagabbana, che l’iscrizione al GUF e la partecipazione ai Littoriali erano obbligatorie. Non è vero. Ma è vero che lo diventavano, in qualche modo, per chi come Moro sentisse, sotto quella sua superficie d’acqua cheta, una gran smania d’arrivare. Le pubblicazioni giuridiche di Moro -che, presa la laurea nel 1938, ebbe in piena guerra la libera docenza di diritto penale e poi l’incarico di filosofia del diritto – sono migliori, secondo gli esperti, delle pubblicazioni economiche di Fanfani. Meno caduche, meno frettolose, meno legate ai momento.
[aesop_image img=”https://www.ilsudonline.it/wp-content/uploads/2019/06/Aldo-moro-1.jpeg” panorama=”on” align=”center” lightbox=”on” captionsrc=”custom” caption=”Aldo Moro” captionposition=”left” revealfx=”off” overlay_revealfx=”off”]
Per gli universitari del 1916 – che la bizzarria burocratica volle privilegiare rispetto a quelli tartassati del 1921, volontari con cartolina precetto – la chiamata alle armi venne tardi: e quando venne, Moro non rispose con entusiasmo. I cavalli di razza democristiani correvano a tutto galoppo verso le glorie della Roma ministeriale, non verso le glorie del fronte. Si ha la sensazione, dalle loro biografie, che la guerra gli scorresse accanto, senza investirli. Così Moro fu – sempre a due passi da casa – prima sergente presso il Tribunale Militare, poi ufficiale – col grado di capitano, che carriera anche lì! – del commissariato aeronautico dove fu destinato all’ufficio disciplina. Gli impegni militari gli fecero lasciare la presidenza della FUCI nazionale che passò a un altro vispo puledro di razza anche lui, Giulio Andreotti.
Dopo la tragedia dell’8 settembre Moro si faceva spesso vedere alI’EiAR di Bari, per avere informazioni. Annibale del Mare lo ha ricordato in questi termini: «Quasi ogni giorno, intorno alle 17, veniva a farci visita… Sempre elegante nella sua divisa nuova di capitano d’aviazione (talvolta vestiva anche quella bianca estiva)… Scorreva i nostri bollettini di intercettazione telefonica e commentava con noi gli avvenimenti… Quasi ogni mattina, quando mi soffermavo nella cappella adiacente all’Università, mi capitava di incontrarlo e lo trovavo assorto nel seguire la Messa e nel ricevere la comunione».
[aesop_quote type=”block” background=”#282828″ text=”#ffffff” align=”left” size=”1″ quote=”Il matrimonio fu coerente con il suo stile di vita.” parallax=”off” direction=”left” revealfx=”off”]
Noretta Chiavarelli, la prescelta, aveva il merito d’essere «seria e fortemente caratterizzata dalla fede» e di frequentare anche lei gli ambienti dell’Azione Cattolica.
Consolato della perduta presidenza della FUCI con quella, non meno prestigiosa e più duratura, di presidente dei laureati cattolici, Moro aveva allora fama di moderato. Tra monarchia e repubblica, sapendo quali fossero gli umori dell’elettorato pugliese – secondo solo alla Campania, il 2 giugno 1946, nella opzione sabauda -, non si pronunciava. Teneva comizi tra maree di bandiere con lo stemma dei Savoia. Poi professava simpatie di sinistra. Era incerto. Corse voce, allora, d’un suo tentativo d’entrare nel Partito socialista. Italo Pietra nel suo Moro fu vera gloria? ha indugiato su questo episodio, dal leader democristiano sempre smentito come calunnioso. Comunque Moro fu candidato democristiano per la Costituente, e rastrellò, alla sua maniera soave, 27 mila preferenze: forte delle quali, trentenne, approdò definitivamente a Roma: e, nella Costituente, ebbe un posto nella commissione dei 75, quella che elaborava le proposte di articoli e poi le passava all’assemblea plenaria. E stata attribuita a lui la formulazione del principio di «repubblica fondata sul lavoro» con cui esordisce la Costituzione. Nilde lotti ha ricordato che Togliatti fu impressionato dagl’interventi di Moro: i quali dovevano essere musica comprensibile per l’orecchio d’un incallito cremlinologo abituato ai sottintesi e alle sfumature, alla forma ovattata che nasconde la sostanza dura. Questo saper teorizzare più che fare, questa presbiopia politica, che faceva vedere nitidamente traguardi remoti, e in maniera confusa esigenze impellenti e attuali, erano fatti apposta per piacere ai più dottrinari tra i dos-settiani, su cui Moro infatti fece colpo. E si unì al gruppo nonostante i precedenti non progressisti e l’agnosticismo su molti temi incalzanti, tranne uno: la necessità di una presenza costante della fede nell’azione politica.
[aesop_image img=”https://www.ilsudonline.it/wp-content/uploads/2019/06/aldo-moro.jpeg” panorama=”on” align=”center” lightbox=”on” captionsrc=”custom” caption=”Aldo Moro e Paolo VI” captionposition=”right” revealfx=”off” overlay_revealfx=”off”]
Il Moro di quel tempo era d’una onestà personale rimasta leggendaria. Antonio Rossano, un giornalista pugliese che ne Ealtro Moro ha dato un’immagine non convenzionale, e ricavata da esperienze personali, del leader ucciso dai brigatisti, rievoca questo episodio. Trasferitosi a Roma, il professor Aldo Moro andò al Commissariato per le requisizioni degli alloggi di Bari e disse che l’abitazione a suo tempo concessagli non gli serviva più. «L’impiegato non fiata. S’alza di scatto e corre negli uffici della direzione dal commissario, generale Ferrara: “Generale, venga fuori lei. C’è un provocatore, dice che vuole lasciare la casa che gli avevamo assegnato”.»
Il giovane professore e parlamentare aveva ancora qualche indecisione sul suo avvenire, era tentato dalla professione di avvocato, però capiva che gli mancava la grinta necessaria per presentare parcelle salate. Le elezioni del 18 aprile 1948 dissolsero ogni dubbio. I quasi 70 mila voti di preferenza di Moro furono un piccolo trionfo personale nel grande trionfo del Partito. Erano voti caduti dal cielo: nel senso che li aveva fortemente agevolati il clero con una campagna insistente per quel cattolico esemplare, rassicurante, cortese, benevolo, fedele alla sua terra. Anche l’arcivescovo di Bari Marcello Mimmi s’era impegnato a fondo per la buona riuscita del suo protetto: che fu sottosegretario agli Esteri in un settore – quello dell’emigrazione – che a un Fanfani avrebbe servito su un piatto d’argento l’occasione agognata per far valere le sue capacità organizzative e la sua instancabilità motoria, ma che per Moro era troppo poco adatto a teorizzare, tessere, discettare con infinita pazienza. Il «dottor Divago» non si sentì a suo agio.
[aesop_image img=”https://www.ilsudonline.it/wp-content/uploads/2019/06/De-gasperi-e-aldo-moro.jpeg” panorama=”off” align=”center” lightbox=”on” captionsrc=”custom” caption=”Alcide De Gasperi e Aldo Moro” captionposition=”left” revealfx=”off” overlay_revealfx=”off”]
Il nodo dell’emigrazione era importante, e dava esca a polemiche. Monsignor Baldelli, a nome della Pontificia commissione di assistenza, insisteva perché si desse impulso a questa valvola sociale, e sosteneva che i maggiori ostacoli erano frapposti dal Ministero del Lavoro – l’emigrazione aveva doppia dipendenza, dagli Esteri e dal Lavoro – rimasto un feudo socialista, anche se il ministro era Fanfani. Forse questa dietrologia era infondata: secondo l’opinione di Stefano Jacini i due ministeri procedevano, sulla questione, parallelamente, e come le parallele, non s’incontravano mai. Moro, che inventerà solo molto più tardi le convergenze parallele, leggeva molti rapporti di ambasciatori, sapeva tutto e non faceva nulla. Non per questo, s’è accennato, De Gasperi s’impermalì. Ci fu il sospetto per l’intervento dosset-tiano. Ma ci fu anche dell’altro. Ci occuperemo più tardi del no opposto dai democristiani che si riconoscevano in Cronache sociali – la rivista sulla quale comparivano articoli di don Mazzolari – all’ingresso nel sesto governo De Gasperi. E Moro fu del numero. Ma Italo Pietra crede probabile che «anche prima di quell’episodio (la discussione sul Patto atlantico) De Gasperi avesse un’ombra di perplessità verso Moro, così come verso Fanfani, per via della tessera fascista. Fanfani affascinò il Presidente con l’attivismo, con l’abilità organizzativa, con la ricchezza di stupende immagini nel modo di esporre i problemi. Risorse di quel genere, Moro ne aveva ben poche».
Fonte: Storia d’Italia, volume X