Bar e ristoranti gestiti dalla ‘Ndrangheta nella Capitale. Il pm Francesco Minisci ha ricostruito oggi davanti ai giudici della VII sezione del tribunale di Roma la capacità delle cosche di entrare nel tessuto economico della città . Il processo è quello che riguarda anche il ‘Cafè de Paris’ di via Veneto. I 24 imputati sono accusati a vario titolo di trasferimento fraudolento di beni. Ad alcuni è contestata l’aggravante del legame mafioso.
Il pubblico ministero ha chiesto nel complesso 60 anni di reclusione. Tra le richieste più dure, quella a una condanna a 7 anni di reclusione per Vincenzo Alvaro e a 5 anni per Damiano Villari, ritenuti dagli inquirenti le figure di primo piano nelle attività illecite. “Il contesto in cui gli imputati hanno compiuto il reato è di elevata mafiosità”, ha continuato il rappresentante dell’accusa.
Il gestore del ‘Cafè de Paris’ è proprio Villari. Il pm ha ricordato che questo è un barbiere originario di Santo Stefano di Aspromonte, provincia di Reggio Calabria, e che nella sua vita ha fatto in Calabria anche il conducente di autombulanze private.
“E’ Villari – ha detto ancora Minisci – a preparare il terreno per l’arrivo a Roma di Alvaro che ottiene un lavoro come aiuto cuoco in un locale intestato alla moglie di Villari”.
Da parte sua Villari, dopo le richieste, ha commentato: “Dopo questi 5 anni di disperazione credo ancora nella giustizia pulita e sana, ma anche in un `giudice a Berlino`. Mi trovo così solo perchè ho creato lavoro da onesto cittadino italiano”.
Il pm Minisci ha poi spiegato che la cosca Alvaro è radicata da decenni nelle zone di Cosoleto, Sant’Eufemia e Sinopoli ed è una struttura familistica, autosufficiente e difficilmente penetrabile. Tale è rimasta quando è approdata a Roma, seguendo le tracce di Vincenzo Alvaro, figlio del capoclan Nicola, che aveva ottenuto l’obbligo di soggiorno nella Capitale da sorvegliato speciale.
A partire dai primi anni del Duemila, infatti, “si verifica a Roma una frenetica acquisizione di attività nel settore della ristorazione, una scalata in cui vengono coinvolti soggetti vicini ad Alvaro, molti dei quali nella capitale neppure mettono piede”. Acquisti e cessioni di quote aziendali che – ha spiegato ancora il pm – “sono finalizzati a rendere difficoltose le indagini patrimoniali sulla famiglia e a creare assetti societari formalmente credibili ma in realtà fittizi”.