di Giuseppe Antonio Martino
Il sogno di Domenico Zappone, subito dopo la maturità, forse non era quello di fare l’insegnante: si iscrisse infatti alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Messina e, soltanto per mantenersi agli studi, conseguì il diploma magistrale e divenne maestro elementare. Molto probabilmente nelle aule dell’Università messinese conobbe il suo coetaneo Giuseppe Longo, anche lui iscritto in giurisprudenza, figlio del giornalista Pietro e futuro fondatore de “L’Osservatore politico letterario”, una delle più importanti riviste storico-letterarie del Novecento, che lo aiutò a pubblicare, nel 1934, sulla “Gazzetta di Messina”, il suo primo articolo intitolato Fine dell’adolescenza.
I rapporti tra Zappone e Longo non si conclusero dopo quella prima esperienza giornalistica del giovane studente palmese e non è escluso che quella pubblicazione sia stata l’incipit di un suo nuovo progetto di vita, nel 1938, infatti, conseguì la laurea, non in giurisprudenza ma in lettere, all’Università di Catania.
Una ferita alla gamba sinistra, conseguente ad una disastrosa caduta durante il servizio militare, fu determinante per la sua vita futura: gli costò anni di ospedale, nove operazioni e il rischio dell’amputazione dell’arto che poté scongiurare grazie a delle fiale di penicillina che la moglie riuscì a procurare nella Napoli occupata dalle truppe americane.
Quella convalescenza fu l’inizio di una dolorosa odissea che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita: da allora camminò sempre con il bastone in mano e pose sul suo volto una pirandelliana maschera da intellettuale scanzonato che, in realtà, nascondeva un sentimento doloroso della vita. Raccontò quell’esperienza in Le cinque fiale, un volumetto pubblicato nel 1952, a Reggio Calabria, in cui narra le vicende di un malato che non riesce a trovare la giusta cura per guarire.
Quando ero studente di scuola media, mi capitava spesso d’incontrarlo in piazza Amendola, a Palmi, dove c’era la fermata degli autobus: il suo sorriso beffardo e la sua camicia bianca, spesso macchiata, sono rimasti impressi nella mia mente, forse ingigantiti dall’adolescenziale curiosità con cui lo guardavo, quasi intimidito dalla fama di intellettuale controcorrente che lo caratterizzava.
Come ebbe a dire Gilda Trisolini in una commemorazione del 1979, Domenico Zappone «in apparenza e, per tanti suoi personali motivi, amaro e carico di inquietudine e malinconia […] possedette la cristiana grazia che fu il dono supremo di effondere intorno a sé proprio ciò che gli mancava, la gioia di vivere», pur restando sempre «chiuso in se stesso com’era e geloso dei suoi sentimenti: un pudore che sfiorava la scontrosità, che poteva, qualche volta, essere scambiato per durezza e scontrosità».
Come giornalista scrisse per importanti testate nazionali, dal “Piccolissimo” al “Giornale della Sera”, dal “Giornale dell’Emilia” al “Giornale d’Italia” e collaborò anche con la sede regionale RAI di Cosenza, ma non si cimentò mai in un’opera di narrativa complessa, anche se nei suoi articoli diede sfogo alla fantasia, talora inventando vicende capaci di coinvolgere emotivamente il lettore: negli anni Cinquanta, per esempio, narrò di un cane che non aveva esitato a sfidare, a nuoto, le correnti dello stretto di Messina per tornare a Scilla, dall’insensibile padrone che aveva cercato di liberarsi di lui abbandonandolo in Sicilia (l’articolo fu ripreso dalla “Domenica del Corriere” del 24 gennaio del 1954) e c’è addirittura chi sostiene che persino Domenico Modugno trovò l’ispirazione per scrivere il testo di una sua celebre canzone in una frottola giornalistica in cui Zappone aveva narrato la fantasiosa morte di un pescespada suicidatosi per amore sulla spiaggia di Palmi, dopo aver visto morire la sua femmina.
Dopo “Le cinque fiale“, Zappone pubblicò un altro libro, Calabria nostra (Bietti, Milano 1969) un’antologia di autori calabresi per gli alunni delle scuole medie, operando pioneristicamente l’inserimento dello studio della cultura regionale nei programmi scolastici.
Dopo la sua morte, e per un lungo decennio, cadde il silenzio sui suoi scritti: è stato necessario aspettare il 1985 perché fosse pubblicata, per i tipi della casa editrice Gangemi e a cura dell’Amministrazione Comunale di Palmi, Terra e memoria. Uomini, natura e mito in Calabria, un’altra raccolta di suoi brevi scritti sui temi della cultura e delle tradizioni popolari calabresi.
Nella prefazione a quel volume, Mario Idà così parlava del suo concittadino che qualche anno dopo, sulle pagine del periodico locale “Madre Terra Palmi & Dintorni”, definì «maestro di vita e di pensiero»: «Certo, Domenico Zappone era un uomo difficile. Restio a seguire le mode culturali e a far parte di cenacoli letterari poté sembrare un isolato e forse per certi aspetti lo fu, poiché percorse una strada tutta sua, in piena libertà di espressione e di giudizio, in quel suo sforzo tenace, febbrile, mai autocompiacentesi, di ricerca e di scavo in profondità per giungere alle sorgenti più vere dell’anima calabrese, alle quali attingere con organicità di intenti».
Nell’ultimo ventennio gli scritti del giornalista palmese hanno trovato in Santino Salerno, anche lui suo concittadino, un attento critico, capace di proporli ad un più vasto pubblico: nel 2000, per le edizioni Adda di Bari, videro la luce gli articoli giornalistici pubblicati tra il 1955 e il 1970 raccolti nel volume Domenico Zappone, inviato speciale in Puglia e Basilicata; nel 2006 l’editore Rubbettino pubblicò un’altra raccolta di testi di Domenico Zappone, Il Cavallo Ungaretti, con il preciso fine di «allargare l’ambito di conoscenza delle sue tematiche narrative». Dalla lettura di quegli scritti, alcuni dei quali mai antologizzati, anche se prodotti in tempi diversi, emerge continuità nelle argomentazioni trattate e coerenza nei registri linguistici utilizzati dal giornalista palmese, tanto da avere quasi l’impressione di scorrere capitoli di uno stesso romanzo.
Nel 2011, sempre per i tipi di Rubbettino e a cura di Santino Salerno, sono stai pubblicati due volumi: Il Pane della Sibilla. Viaggio nei luoghi di Corrado Alvaro e Le maschere del Saracino e altre storie. Il primo raccoglie venti articoli di Domenico Zappone apparsi tra il 1951 e il 1976, aventi come oggetto San Luca, città natale di Corrado Alvaro e persone e luoghi di quell’universo, da cui traspare il forte ascendente esercitato dallo scrittore di San Luca sul giornalista palmese; nel secondo, suddiviso in aree tematiche, vi è una selezione dei pezzi pubblicati su diverse testate tra il 1934 e il 1969 dai quali emerge con maggiore evidenza l’icastica ironia di un uomo che, attraverso personaggi talora estrosi e patetici, spesso ritratti in una sonnolenta vita di provincia, è alla costante ricerca di un mondo fiabesco ma certamente diverso di quello che gli impone la quotidianità della vita.
Santino Salerno definì Domenico Zappone «generoso e imprevedibile cavaliere dell’assurdo» e, in una acuta notazione afferma che “Assurdo” è forse la parola più ricorrente negli scritti del suo concittadino il cui occhio, nascosto sotta la ridanciana maschera che si era posta sul volto, è sempre stato alla ricerca del lato assurdo di tutte le cose che lo circondavano.
L’ultima curatela di Santino Salerno, Cinquanta lettere a Mario La Cava (Città del sole edizione, Reggio Calabria 2019) contiene le cinquanta lettere, appunto, inviate da Domenico Zappone allo scrittore di Bovalino tra il 1950 e il 1976, anno in cui, nel mese di novembre, a sessantacinque anni, decise di porre fin alla sua esistenza. Quelle lettere costituiscono un documento molto importate per chiunque voglia accostarsi al mondo degli intellettuali calabresi rimasti a vivere e ad operare nei loro paesi di origine. A dire il vero sia Zappone sia La Cava avevano sperimentato la via dell’emigrazione intellettuale come altri corregionali, ma ambedue erano tornati al tetto natio, forse incapaci di tagliare il cordone ombelicale con una cultura della quale si sentivano parte integrante e della quale volevano essere fedeli testimoni, fino a sfidare, lontani dagli eleganti salotti cittadini, l’isolamento che ha certamente reso difficile il loro inserimento nel dibattito culturale nazionale e nei circuiti editoriali.