I nodi economici

Confermare quota 100, ma con un restyling, accompagnato, forse, da una riduzione del periodo di sperimentazione. E trasformarla in uno dei serbatoi della prossima manovra, anche tenendo conto del flusso di domande fin qui presentate, più contenuto di oltre il 30 per cento rispetto alle previsioni iniziali. Le prove tecniche d’intesa tra M5S e Pd sui temi economici e, soprattutto, sulla delicata e complicata legge di bilancio per il prossimo anno, cominciano ad avere una prima base di partenza su cui rafforzarsi. Dagli incontri tecnici di ieri, che hanno preceduto il confronto politico del primo pomeriggio tra i due gruppi parlamentari, e che proseguiranno nei prossimi giorni (forse già oggi), sono arrivate alcune indicazioni utili a costruire una strategia comune. Soprattutto sul fronte del welfare, dove quota loo potrebbe essere oggetto di una rimodulazione, magari accorciando anche di un anno l’attuale sperimentazione triennale (ora prevista fino al 2021), rafforzando al tempo stesso però altri strumenti per non restringere le possibilità di uscita anticipata, in particolare per alcune categorie di lavoratori e per quelli coinvolti in crisi aziendali. Di qui l’ipotesi, all’esame delle due forze politiche, di rendere strutturale (ovvero permanente) l’utilizzo dell’Ape social, attualmente con un orizzonte a corto raggio, e di ampliare il bacino di lavori usuranti e gravosi (per i quali sono già previsti requisiti d’uscita agevolati) da escludere dai futuri aumenti automatici previsti dal collegamento con l’aspettativa di vita. Il ministro dell’Economia uscente Tria dice che i conti sono «in ordine». E che gli italiani «devono stare tranquilli». Perché la manovra «si può fare». Si prendono risorse, «si mettono da una parte o dall’altra». E questa è una «scelta politica». Ma anche senza un nuovo governo, nell’ipotesi di elezioni anticipate, «nessun dramma». Tria parla al Meeting di Rimini e si gode uno spread a 197: «C’è una stabilità finanziaria che abbiamo conseguito, si vede chiaramente dai tassi che paghiamo sul debito». Per ora i numeri gli danno ragione. L’assestamento del bilancio di inizio luglio da 7,6 miliardi, preteso dall’Europa per non far scattare la procedura per violazione della regola del debito, ha riportato il rapporto tra deficit e Pil all’1,9%. L’Italia si è impegnata a rigare dritta quest’anno e anche il prossimo, quando si troverà già 8 miliardi messi da parte grazie a risparmi su reddito di cittadinanza, quota 100 e minore spesa per interessi sul debito, sempre che lo spread resti attorno ai 200 punti. Quel che Tria non dice è che la situazione può sfuggire di mano. I venti di recessione globale incombono sull’Europa e la Germania. Possono piombare sulle aziende italiane che esportano li, inchiodando il nostro Pil a zero o portandolo sotto. Il governo prevede 0,6% nel 2020. Moody’s due giorni fa ha ribassato le stime a 0,5% da 0,8%.

La parola ai rappresentanti delle industrie e delle imprese. Le imprese italiane non hanno preferenze tra le nuove elezioni o la formazione di un governo tra il Partito democratico e i Cinque Stelle. Chiedono però misure precise e riforme, che solo un governo stabile può garantire. Prima di tutto la richiesta è di bloccare i possibili aumenti dell’Iva che potrebbero colpire i consumatori da gennaio, servono 23 miliardi per disinnescare le clausole. Ma non solo. Chiunque siederà a Palazzo Chigi, spiegano gli industriali, dovrà tenere a mente alcuni temi fondamentali, come il taglio del cuneo fiscale. Un provvedimento questo spinto da Confindustria e che anche i sindacati apprezzano. Il lavoro insomma deve restare al centro dell’agenda politica. C’è poi il tema degli investimenti, che si traduce nella realizzazione di opere pubbliche. Questo punto ha diviso il precedente governo, con i leghisti favorevoli a nuove infrastrutture e i grillini più cauti. Le imprese sanno che sarà un tema all’ordine del giorno anche del prossimo esecutivo e per questo chiedono certezze. Così come lo sarà lo sviluppo del Sud Italia, per colmare il divario tra le due anime del Paese. “Taglio dei parlamentari e migranti sono temi da affrontare ma non rientrano in un quadro di politica economica, in una priorità per il paese” dice il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia. Eppure i cinque punti “irrinunciabili” del segretario Pd Nicola Zingaretti, e i dieci imprescindibili di Luigi Di Maio, sono in apparenza al centro delle trattative. Charles De Gaulle l’avrebbe definito “vaste programme”. Ma non vi si scorge nulla di mediamente decisivo per far ripartire la produzione, la formazione, la crescita. “Sulle questioni del lavoro e della crescita si è distratta una larga parte della politica” osserva Boccia. “II sud in recessione, l’economia nazionale in stallo e l’arretramento della Germania meritano molta più attenzione. Per questo serve da tempo un cambio di metodo in chiave italiana e europea: stabilire gli effetti che si vogliono ottenere sull’economia reale, decidere quali strumenti utilizzare e individuare le risorse. Per quanto ci riguarda l’obiettivo è creare lavoro anche con un grande piano d’inclusione per i giovani perché è il lavoro il vero elemento di coesione nazionale, non a caso richiamato nel primo articolo della Costituzione. Per Daniele Vaccarino, imprenditore metalmeccanico, a capo della Cna, la crisi “pazza” in pieno agosto innescata dalle dimissioni del governo Conte «arriva in un momento delicato – spiega -. Ci affidiamo alle scelte del Capo dello Stato, che è una persona saggia. L’Italia è in emergenza. Basta quindi incertezze e contrapposizioni violente. L’appello è di abbassare i toni, e pensare al bene del paese. Ci sono problemi reali da affrontare, e occorre creare un nuovo clima di fiducia per tornare a crescere spingendo su investimenti, esportazioni e consumi interni. In Italia sulla piccola impresa grava una pressione fiscale complessiva pari al 61,2% del reddito prodotto. È un livello inaccettabile. La strada di un fisco più leggero per famiglie e aziende deve rappresentare una priorità, già a partire dalla prossima legge di Bilancio. Con il taglio al cuneo, in particolare, i lavoratori potranno avere una busta paga più pesante. Mi faccia però chiarire: l’Iva non deve aumentare perché, in caso contrario, si avrebbe un ulteriore effetto depressivo sui consumi con conseguenze negative per le aziende (oltre il 75% del totale) che operano nel mercato domestico».

I Nodi politici

Governo M5S-Pd: la trattativa, scontro sul Conte bis. 
Nel primo confronto «non sono emersi ostacoli insormontabili», ma benché sia in discesa la strada dell’accordo Pd-M5S è lunga e tortuosa. Ci sono punti di convergenza, dalla manovra, all’attenzione all’ambiente, altri su cui un’intesa sembra possibile, come il taglio dei parlamentari e la riforma della giustizia, l’autonomia differenziata delle regioni, ma anche aspetti dove le posizioni sono state, almeno fin qui, divergenti. La riforma delle banche, sollecitata dal M5S, non piace per niente al Pd, come del resto la minacciata revoca delle concessioni autostradali. I 5 Stelle sono stati molto critici con le riforme del mercato del lavoro della sinistra, così come il Pd ha forti dubbi sul reddito di cittadinanza. Sull’immigrazione la sinistra chiede un cambio di rotta, solidale con quelle ong che, invece, i grillini non vedono di buon occhio. L’obiettivo comune: trovare le coperture contro l’aumento Iva a manovra di Bilancio 2020 sarà costosa e difficile, ma tra Pd e M5S un’intesa è sicuramente possibile. È subito faccia a faccia tra Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti nella prima delle cinque giornate concesse dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella per trovare intese solide da presentare martedì al Quirinale. E subito il confronto, che pure nelle ore precedenti aveva mostrato segnali di dialogo in mezzo a distinguo e dissociazioni varie, si incaglia su quello che, insieme al taglio dei parlamentari, è uno dei due nodi da sciogliere se Pd e M5S vogliono costituire un governo: il destino del premier uscente Giuseppe Conte. Prima Grillo e poi Di Maio, nell’incontro serale con Zingaretti, rilanciano il nome di Conte. I dem avevano chiesto “discontinuità” e Di Maio, giovedì, sembrava aver messo in naftalina il nome del premier dimissionario ma il peso del fondatore è ancora forte nel movimento. II nodo del premier resta centrale: M55 non è disposto a rinunciare a esprimerlo, il Pd è pronto a un candidato terzo, un tecnico. Ma, dopo la sortita di Grillo e l’aut aut di Di Maio al tavolo con Zingaretti, anche l’ala trattativista del Pd si chiede se nei 55 ci sia davvero la volontà politica di giungere a un abbraccio. Eppure era stato definito “positivo” da entrambe le parti l’incontro fra le delegazioni di Pd e M55 alla Camera, assenti i due leader. Sembrano ridotte anche le distanze sul taglio dei parlamentari, che resta prioritario per i pentastellati: lo stesso Di Maio in serata l’ha riaffermato. Per il Pd, ora più che mai, è fondamentale che i 5 Stelle ufficializzino la chiusura di qualsiasi rapporto con Salvini, che continua a tentare Di Maio offrendogli il posto di premier in un nuovo esecutivo. Non a caso, a fronte di rassicurazioni verbali, il Nazareno chiede che la scelta del “binario unico”, da parte dei 55, sia formalizzata al Capo dello Stato. Il problema sono le fibrillazioni interne, da una parte e dell’altra. In campo grillino Di Battista, la cui pagina social è diventata lo “sfogatoio” dei nemici dell’intesa col Pd, esprime l’esigenza di alzare la posta e non chiude alla Lega. I dem devono sciogliere il gelo fra Zingaretti e Renzi, che aveva accusato Gentiloni di aver tentato di far saltare il ponte con i 55. Restano tre giorni per costruire la maggioranza chiesta da Mattarella.

Governo e trattative in corso: il ruolo del Quirinale. E se il vicepremier Luigi Di Maio tornasse martedì al Quirinale per dire che intende riproporre la maggioranza con Matteo Salvini? Al Colle non commentano gli umori romani trapelati ieri sera tardi dopo la cena tra Di Maio e il segretario del Pd, Nicola Zingaretti. Ma è inutile negare che si guarda con preoccupazione alla piega che hanno preso le trattative in corso. Per i grillini i due forni restano aperti. E così, a 72 ore dal ritorno al Quirinale, per la seconda giornata di consultazioni, la situazione rimane più confusa che mai. Esattamente il contrario di quel che Sergio Mattarella aveva predicato nella prima tornata con i big dei partiti: bisogna fare presto, serve chiarezza per mettere insieme un governo di legislatura, «fatemi avere un nome di un premier credibile e autorevole». Ora, il tavolo Pd-M5S è partito, ma Salvini continua a dire di avere «buone sensazioni» da Di Maio. Più che una crisi è una pochade, con i principali attori, da Di Maio a Salvini, da Renzi a Zingaretti, che giocano tutti una doppia partita. L’altra sera, al Colle, ci sono stati due Di Maio: quello del colloquio con Mattarella, al punto da convincere il Presidente a concedergli più tempo per avviare la trattativa con Pd, e quello dei dieci punti, confezionati per la propria base, dove il Pd non veniva nemmeno mai menzionato. Se davvero Di Maio gli dicesse di voler tornare con Salvini, per quanto assurdo possa sembrare, a rigore il capo dello Stato mercoledì dovrebbe affidare l’incarico a un premier in grado di ricompattare la maggioranza gialloverde, posto che la sua bussola è quella di rispettare «la volontà del Parlamento». Nel suo breve discorso al termine delle consultazioni, è stato molto netto sul fatto che senza un accordo su un Governo politico con una chiara maggioranza, l’unica opzione è quella del voto. Così come ha fatto capire che proprio per la «dichiarata rottura polemica» tra Lega e grillini, non sarà questo Esecutivo a portare gli italiani alle urne. L’ha lasciato intendere pubblicamente ma l’ha detto apertamente nei suoi colloqui riservati con le forze politiche che si sono mostrate d’accordo sulla nascita di un governo di “garanzia elettorale”. Una formula scelta non a caso, perché allontana anche la minima evocazione di un Esecutivo istituzionale di legislatura che è del tutto esduso da Mattarella. Dunque, quali sarebbero i compiti di questa squadra di “garanti”? Innanzitutto, a differenza dal passato e anche dall’ultimo Governo Fanfani, non sarà politico ma meramente tecnico, fatto da alti funzionari, personalità dello Stato, che assumeranno l’impegno di non entrare in attività di partito. Come in passato, invece, sarebbe un Governo a vocazione minoritaria perché l’obiettivo non sarà avere la fiducia ma portare al voto. Qui si pone una domanda: e se venisse votato a maggioranza? L’ipotesi è lontana ma in quel caso servirebbero le dimissioni per consentire al capo dello Stato lo scioglimento. Anche perché la fiducia sarebbe su un programma con un solo punto: traghettare in fretta verso le urne. Velocemente, però, vuol dire non prima di due mesi e qui la data si fa incerta. Se infatti tutto dovesse naufragare la prossima settimana, la prima data utile sarebbe il 10 novembre, sempre che non ci siano ulteriori strascichi di trattativa magari su un nome del premier che poi non riesce a formare il Governo.