Dire che è ambizioso è riduttivo. Il piano industriale 2014-2018 di Fca (Fiat Chrysler Automobiles) che Marchionne ha presentato ieri a Detroit è quasi uno di quei “sogni” che il manager in pullover scuro ha confessato di avere “nel cassetto”. Sogni che “a volte si avverano”, ha subito aggiunto, per riportare il discorso sul terreno dei numeri: 8 nuovi modelli per la Fiat, rilancio del marchio Alfa, grande balzo in avanti nella produzione delle jeep, 6 milioni di vetture vendute complessivamente. Senza contare i 10 miliardi di investimenti previsti in Italia e la difesa ad oltranza del marchio Ferrari: “Non è in vendita”. Marchionne gioca all’attacco in un mercato che, per ora, non dà grandi soddisfazioni alla Fiat. Ma sa anche che è alla guida di un player globale, al settimo posto nella classifica mondiale nel settore dell’auto. Ed è sicuro di avere tutte le carte giuste per poter giocare un ruolo da protagonista. La grande fusione con la Chrysler rappresenta il capitolo principale della nuova storia del Lingotto che, ieri, ha cominciato a scrivere a Detroit. Una scelta che è caduta non casualmente lontana da Torino, sempre meno capitale di un impero ormai globale.
Sarebbe un grave errore chiudere la svolta della Fiat nell’asfittico perimetro di un dibattito sulla presunta perdita dell’italianità del marchio. La scelta di Marchionne di sfidare il mercato globale e competere ad armi pari con i suoi diretti concorrenti era, forse, l’unica a disposizione per evitare il declino di un marchio storico. Nello stesso tempo, la metamorfosi “americana” del Lingotto rappresenta un rischio e un’opportunità per l’intero sistema paese. L’Italia, che continua ad avere ritmi di crescita fra i più bassi d’Europa, negli ultimi anni ha mostrato chiaramente di non essere un “paese per l’industria”. Troppi vincoli, troppe riforme rimaste al palo, troppe diseconomie non superate in tempo. In questo contesto, il piano di Marchionne offre al Paese una nuova chance: gli investimenti previsti e i nuovi modelli targati Fiat (e, soprattutto, Alfa Romeo), offrono un’occasione irripetibile per conservare l’attuale assetto produttivo del gruppo e difendere i posti di lavoro. Per la prima volta, dall’orizzonte del Lingotto, sembra essere scomparso lo spettro della chiusura di impianti: fino a poco tempo fa erano in bilico non solo Termini Imerese, che poi ha chiuso, ma anche stabilimenti importanti come quelli di Cassino e di Pomigliano, per non parlare di Mirafiori. Ma questo non significa che il pericolo sia del tutto superato. Il vecchio adagio di casa Agnelli, “se una cosa va bene alla Fiat va bene all’intero Paese”, forse è ancora più attuale. Se l’Italia non cambia, se non dimostra di avere una politica in grado di sostenere gruppi “globali”, la capitale della Fca sarà inevitabilmente Detroit. E l’Italia sarà sempre meno un paese industriale.
Fonte: L’Arena