In una sua recente partecipazione al programma televisivo “La Confessione” – la stessa in cui smentisce senza riserve la fake new di un suo rapporto sentimentale con l’ex moglie di Berlusconi, Veronica Lario – Massimo Cacciari viene invitato dal conduttore Peter Gomez, a fine puntata, a guardare dritto in telecamera per indirizzare un messaggio… A chi? A Massimo D’Alema.
E il filosofo non s’è fatta scappare l’occasione per togliersi un sasso e presentargli il conto.Con la ruvida sua franchezza, ormai proverbiale. Ma qual è stato l’appunto critico che gli ha indirizzato? Ha fatto cadere Prodi, con l’aiuto di Bertinotti? No. Non ha spinto a dovere il pedale delle riforme, quando era in auge la Bicamerale? Nemmeno. Hamantenuto un approccio soft con l’antagonista Silvio Berlusconi, le sue tv e il conflitto di interessi? No, no. Ancora: ha provocato lo sfrantumo istituzionale dando disco verde alla riforma del titolo V, che fu un prodromo della successiva battaglia leghista (e non solo) sulla autonomia differenziata? No, no, no.
D’Alema, a parere di Cacciari, non ha capito o non ha voluto capire che in Italia veniva avanti negli anni Novanta una “questione settentrionale”. Con la quale era necessario fare seriamente i conti. In fondo la madre di tutti gli errori dell’ex presidente del Consiglio è stata la seguente: essere rimasto ancorato a una visione romanocentrica e centralista della politica.
RIBALTAMENTO
Un j’accuse che, in realtà, potrebbe essere ribaltato dal punto di vista geopolitico. Si potrebbe cioè dire, con non minore congruenza, che il principale errore di D’Alema è stato aver subordinato alla visione romano-centrica (e centralista) ogni istanza “federalista del Sud”.Territorio che peraltro conosceva bene, avendo scelto per molti anni di fare di un collegio elettorale del Salentino la sua base politica. Ma nonostante il lungo suo radicamento nel tacco dello Stivale, è dalle terrazze romane che, come Gep Gambardella, si piccava di guastare ogni festa in cui si celebrasse anche solo un simulacro di autonomismo politico meridionale. Facendole fallire.
Cruciale fu l’anatema che fece cadere sul capo dei primi cittadini che, fascia a tracolla, fecero assembramento a Eboli, inaugurando l’effimera stagione del “partito dei sindaci”, durata sì e no lo spaziodi una primavera. E Cacciari certo non può averla dimenticata, perché di quel novero fece parte anche lui, come primo cittadino a Venezia. Era il 1993 e il “partito dei sindaci” avrebbe potuto rappresentare un potenziale sbocco alla rovinosa caduta della Prima Repubblica.Con Cacciari a Venezia, Rutelli a Roma, Bassolino a Napoli, Formentini a Milano. “Storie politiche e profili culturali diversi – ricorda a tal proposito Luigi Vicinanza – ma comune era l’orgoglio di dare una rappresentanza all’Italia delle cento città, il meglio della nostra tradizione civica, mentre un sistema nazionale stava collassando. Forte della legge che introdusse l’elezione diretta dei sindaci, primo motore della personalizzazione della politica nella figura del leader, consacrata dal consenso popolare”.
Fu D’Alema a seppellire sotto una risataquel processo che sorgeva bottom up.Definì “cacicchi” i primi cittadini che intanto trovarono legittimazionenella vittoria del PDS alle amministrative di quell’anno, le prime consultazioni per l’elezione diretta del sindaco o del Presidente della Provincia. “Sindaci cacicchi”, ossia equivalenti ai capi indigeni dell’America centro-meridionale al tempo dell’occupazione spagnola. Denominazione che suonò peggio di un anatema per chi avrebbe osato cavare la testa fuori dal sacco.
RIGURGITI NEOBORBONICI
Correva l’anno 1994, un cui furono indette elezioni politiche anticipate.Le vinse Silvio Berlusconi. D’Alema fu eletto nel collegio n. 11 della Puglia.Raccolse quindi il massimo risultato personale in un passaggio storico in cui la sinistra italiana otteneva il minimo esito. Sta di fatto che nei successivi decenni, anche per la conquista della Lega Nord di una centralità politica nello scenario italiano, qualsiasi tentativo di mettere a sistema le regioni del Sud, anche al solo scopo di allineare fra loro i progetti valevoli sui fondi europei, è sempre stato rubricato come rigurgito neoborbonico.Da respingere per principio o, nella peggiore delle ipotesi, da trattare con il curaro della ironia, più o meno come alla maniera dei cacicchi di D’Alema. Anzitutto dagli intellettuali che, come lui, si sono formati alla vecchia scuola del Pci di Chiaromonte o nipotini di Giuseppe Galasso, meridionalisti e statal-centralisti alla maniera di D’Alema. Di fatto mai nessuno fra loro ha mai seriamente stigmatizzato, con eguale enfasi polemica,il richiamo alla “diversità padana”, quasi una identificazione antropologica, evidentemente non è radicata solo nella identità della Lega di Miglio e di Bossi.Che persiste, sotto spoglie meno grevi, vale a dire in forma di “questione settentrionale”, persino in un fine intellettuale qual è Cacciari. Qui c’è la linea del Piave dietro la quale è attestata l’intera classe dirigente del Nord: di destra, di sinistra, di centro che sia. Il Sud è bene che resti diviso su tutto.E se prova a fare sul serio basterà apostrofare i suoi sindaci come cacicchi, uguagliando i sommovimenti sociali alla sommossa di Masaniello.Oppure apostrofare le sue istanze di cambiamento riesumando il falso storico della Marineria di Ferdinando.Il famigerato “facite ammuina” che è un plastico esempio di fakenews ante litteram. Uno dei più clamorosi mai messi in circolazione.