Il 13 ottobre 1815 viene fucilato a Pizzo Calabro Gioacchino Murat, generale francese, re di Napoli e maresciallo dell’Impero con Napoleone Bonaparte. Venne sconfitto dagli austriaci, prima ad Occhiobello, poi, dopo una ritirata attraverso Faenza, Forlì e Pesaro, a Tolentino (2 maggio 1815. Dopo la disfatta e dopo il famoso proclama dedicato agli italiani, che chiamò alla rivolta contro i nuovi padroni, presentandosi come alfiere della loro indipendenza, era fuggito da Napoli il 22 maggio in abiti civili, lasciando in città la moglie Carolina ed i figli, ed era sbarcato a Cannes qualche giorno dopo. Qui errò a lungo per la Provenza, nella speranza che l’illustre cognato, ripreso il potere dopo la fuga dall’isola d’Elba, lo richiamasse nell’armata. Ma il Bonaparte non solo non lo richiamò, ma gl’impose, tramite un inviato del ministro degli esteri Caulaincourt, di tenersi lontano da Parigi e di soggiornare tra Grenoble e Sisteron.[ Dopo la disfatta napoleonica a Waterloo, Murat si rifugiò in Corsica, ove giunse il 25 agosto 1815 e dove fu presto circondato da centinaia di suoi partigiani. Organizzò quindi una spedizione per riprendersi il regno di Napoli. La spedizione, messa in piedi in fretta ed in furia e forte di circa 250 uomini, partì da Ajaccio il 28 settembre 1815. Dirottato da una tempesta in Calabria, Murat sbarcò l’8 ottobre nel porticciolo di Pizzo. Intercettato dalla Gendarmeria Borbonica al comando del Capitano Trentacapilli, fu da questi arrestato e fatto rinchiudere nelle carceri del locale castello. Ferdinando IV, da Napoli, nominò una Commissione Militare competente a giudicare Gioacchino, composta da sette giudici e presieduta dal fedelissimo Vito Nunziante, al quale il re aveva ordinato di applicare la sentenza di morte in base al Codice Penale promulgato dallo stesso Gioacchino Murat, che prevedeva la massima pena per chi si fosse reso autore di atti rivoluzionari, e di concedere al condannato soltanto una mezz’ora di tempo per ricevere i conforti religiosi. Nell’ascoltare la condanna capitale Murat non si scompose. Chiese di poter scrivere in francese l’ultima lettera alla moglie e ai figli, trasferitisi nel frattempo a Trieste, che consegnò a Nunziante in una busta con dentro alcune ciocche dei suoi capelli. Volle confessarsi e comunicarsi, prima di affrontare il plotone di esecuzione che l’attendeva, e venne fucilato a Pizzo Calabro il 13 ottobre 1815. Di fronte al plotone d’esecuzione si comportò con grande fermezza, rifiutando di farsi bendare. Pare che le sue ultime parole siano state:
“Risparmiate il mio volto, mirate al cuore, fuoco!”
In seguito, circolarono voci che ritenevano Murat vittima di un complotto architettato da Giustino Fortunato e Pietro Colletta, i quali lo avrebbero attirato in Calabria facendogli credere di essere ricevuto ed acclamato dal regno, ma la vicenda si rivelò infondata.
Otto giorni dopo la fucilazione il generale Nunziante fu nominato marchese mentre il tenente che eseguì la fucilazione diventò comandante. Sull’epilogo della vita di Murat Napoleone così si espresse: « Murat ha tentato di riconquistare con duecento uomini quel territorio che non era riuscito a tenere quando ne aveva a disposizione ottantamila. » |