di Michele Eugenio Di Carlo
Con il crollo del governo borbonico a Napoli, il ritiro di Francesco II di borbone a Gaeta e l’arrivo dei piemontesi, l’ex Regno delle Due Sicilie subiva un tracollo economico che non risparmiava nessun segmento vitale e nessun ceto sociale, tranne forse quello dei possidenti della borghesia agraria che continuavano a conservare privilegi e benefici legati alle terre demaniali, spesso usurpate o acquisite a prezzi stracciati, mai ripartite ai
braccianti e ai contadini poveri come una legge del 1806 aveva previsto.
In una situazione di confusione e di riorganizzazione amministrativa e legislativa, gli scambi commerciali con l’estero erano stati quasi annullati, mentre quelli interni erano continuamente insidiati e minacciati dallo stato di totale insicurezza in cui versavano tante province, considerato che le vie di comunicazione erano controllate da briganti, soldati borbonici sbandati, giovani renitenti alla leva, contadini e braccianti costretti a rubare per
sopravvivere alla fame e alla miseria.
Il bilancio dell’ex regno borbonico, costretto a sostenere il peso della guerra civile, dell’occupazione militare garibaldina e del congedo dell’esercito meridionale garibaldino seguito allo scioglimento del corpo, entrò ben presto in deficit.
Non meno disastrati furono i risparmi privati che videro i titoli crollare in maniera allarmante. Interi settori industriali e commerciali si apprestavano a fallire perché privati di commesse pubbliche finite al Nord, mentre si verificava un’impressionante fuga di capitali che, tra l’altro, non avrebbero mai ripreso la direzione di partenza.
Soprattutto a Napoli si riscontrava un impressionante fenomeno di disoccupazione di massa che alimentava esponenzialmente le questioni legate alla sicurezza, mentre un deciso fenomeno inflattivo, abbinato ad un’annata magra dei raccolti tipici dell’agricoltura del Sud, colpiva gravemente proprio i contadini e i ceti subalterni, provocando ulteriore malcontento, già alimentato da sentimenti di lealtà alla dinastia borbonica e dall’azione determinata del clero.
Ruggero Bonghi, futuro ministro, segretario durante la Luogotenenza di Farini, in una lettera al conte di Cavour si pronunciava in questi termini: «Un altro bisogno è il lavoro e qui la questione delle ferrovie è soprattutto politica. Bisogna provare che i liberali sanno in due mesi metter mano a quello che i Borboni non hanno saputo né potuto né voluto fare in
venti anni».
Alle prime Luogotenenze toccò l’onere di provvedere con politiche economiche e sociali, affinché la crisi economica non sfociasse in un’insurrezione generale, auspicata, ventilata e incoraggiata da Francesco II di Borbone, prima da Gaeta poi dal suo esilio nella Roma papale. Si trattava di ridurre la disoccupazione con un piano consistente di lavori
pubblici, di ridare sicurezza ai traffici per la ripresa delle attività commerciali e industriali, di riprendere le operazioni demaniali per togliere alla reazione borbonica l’arma micidiale delle rivolte contadine. Furono stanziati per lavori pubblici 10 milioni con decreto reale dell’8 gennaio 1861 e 5 milioni con decreto luogotenenziale del 23 gennaio per la
costruzione di strade comunali e provinciali.
Nelle sue “Memorie Politiche” Liborio Romano affermava categoricamente che gli interventi economici erano stati del tutto inutili, visto che le condizioni di disoccupazione e di miseria avevano spinto il basso ceto, ma anche tanti soldati del disciolto Esercito regio borbonico, verso il grande brigantaggio.
Era questo il clima che già si respirava il 17 marzo 1861, quando con l’approvazione della Legge n. 4671 del Regno di Sardegna nasceva il Regno d’Italia e Vittorio Emanuele II assumeva per sé e per i suoi successori il titolo di Re d’Italia e Camillo Benso conte di Cavour diventava il presidente del primo governo unitario.
Pochi mesi dopo, in Capitanata, il governatore Bardesono, in una relazione del 2 giugno 1861 al nuovo luogotenente Ponza di San Martino, così fotografava le condizioni economico-sociali: «Non si potevano compiere le pubbliche opere perché gli intraprenditori, inabili a resistere alle pretese dei braccianti, disertavano l’asta pubblica […]
La guardia Nazionale era una accozzaglia prepotente e riottosa […] Le coscienze pure, gli animi paurosi, e quella imponente classe degli agiati, la quale fu la forza principale degli stati e costituisce in tutta Italia la parte direttiva del moto Nazionale, esterrefatti si tenevano nascosti, quando pure disperati non facevan voti per il trionfo di un’altra bandiera».
In altre parole, vi erano tutti i presupposti affinché potesse esplodere il malcontento, la delusione, la frustrazione di ingenti masse proletarie ridotte in miseria.
L’istituto della Luogotenenza restò in vigore fino al 31 ottobre 1861, quando già il Meridione era diventato il campo di battaglia di una guerra civile impressionante e mai vista prima, di una lotta di classe sanguinosa e violenta, di uno scontro tra mentalità e culture antitetiche destinate a non incontrarsi mai.
Era appena iniziata la storia dell’Italia unita, ma già si erano manifestati con prepotenza quei fattori deplorevoli e deprecabili che avrebbero avuto ripercussioni negative negli eventi futuri: classe politica trasformista ed elitaria, impotente e inadatta a fronteggiare responsabilità pressanti, burocrazia farraginosa e corrotta, colonizzazione del Mezzogiorno, “piemontesizzazione” delle strutture politiche e amministrative, borghesia
agraria inadeguata ai tempi, masse contadine disorganizzate e abbandonate al loro destino, ceti operai sfruttati e malpagati.
Ma se il nord d’Italia si stava avviando verso un futuro migliore e più dignitoso, il Mezzogiorno stava cadendo in un baratro dal quale non si sarebbe mai più ripreso: guerra civile, emigrazione, mafia, fuga dei cervelli migliori, colonizzazione dell’economia, sudditanza psicologica e culturale.