Economia e finanza
Germania: crolla la produzione industriale, l’impatto sul Pil italiano. Si teme il peggio per le sorti della locomotiva economica dell’Europa una recessione tecnica in Germania nel secondo e terzo trimestre 2019 che può far deragliare ulteriormente la crescita già in netto rallentamento del Pil europeo. La produzione industriale tedesca è scesa ieri più del previsto in giugno a -1,5% rispetto al mese precedente (contro un consensus di -0,4/-0,5) e con il calo anno su anno (-5,2%) che è il peggiore degli ultimi dieci anni, dai tempi della ripresa dopo la Grande recessione. Il cedimento continuo dell’industria manifatturiera tedesca, esposta fortemente all’export e alle incertezze dello scenario macroeconomico mondiale e anche nello specifico del rallentamento della crescita cinese, rischia di espandersi ai servizi e compromettere così l’intero quadro. La domanda interna è sostenuta ma la tendenza, in un clima di crescente incertezza, resta quella di un accumulo di risparmi piuttosto che di un aumento degli investimenti: questa è una delle principali preoccupazioni della Bce che il prossimo mese è pronta a lanciare un nuovo “whatever it takes” di misure di ulteriore allentamento monetario dal taglio dei tassi al QE per contrastare i venti negativi sulla crescita europea e dunque sull’inflazione. Perché questa debolezza de più forte d’Europa? Le cause vanno da fattori esterni come la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, ambedue grandi clienti di Berlino e ambedue pronti a “punire”, con dazi o in altro modo, chi commercia con il “nemico”, a fattori interni come la debolezza di alcune banche importanti, i non brillanti risultati di molte grandi imprese, la bolla immobiliare che porta i tedeschi – cittadini di un paese che invecchia – a risparmiare sui consumi correnti pur di comprarsi una casa. Se la Germania prende il raffreddore, l’halia può prendersi la polmonite. E una polmonite economica è l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno. Perché questo possibile effetto negativo? Perché la Germania è il nostro migliore cliente. Le nostre esportazioni industriali verso la Germania superano sensibilmente il miliardo di euro alla settimana e coprono tutto l’arco della produzione, dagli alimentari alle auto, dalla metallurgia alla chimica.
Riforma della Lega sulla cancellazione degli 80 euro: che impatto avrà? L’impegno da parte del governo è stato solenne: sulla misura degli “80 euro” non ci sarà nessuna cancellazione e «l’effetto in busta paga sarà lo stesso», ha garantito il vice ministro all’Economia, il leghista Massimo Garavaglia. Ma sarà veramente così o ha ragione l’ex premier Matteo Renzi, padre del provvedimento, che ha parlato di «una pagliacciata che nasconde una fregatura»? A ben guardare, l’addio agli 80 euro varati non sarà così indolore. Il rischio maggiore è che nella fascia degli attuali percettori del credito fiscale, quella di chi guadagna tra gli 8 mila e i 26.600 euro lordi all’anno, qualcuno possa uscirne penalizzato. Tutto dipenderà da come la misura verrà disegnata e, soprattutto, dai necessari correttivi che verranno introdotti. Cambiare rotta sugli 80 euro si può. Ma attenti a non penalizzare i contribuenti. Sono 3 milioni gli italiani che rischiano di vedersi cancellare il bonus se la trasformazione dell’attuale impianto verrà realizzata senza considerare alcuni aspetti tecnico-fiscali connaturati al provvedimento entrato in vigore nell’aprile del 2014. L’allarme lo lancia il Centro studi Eutekne. «L’annuncio da parte del governo della volontà di trasformare bonus 80 euro in un aumento della detrazione per redditi di lavoro dipendente – premettono gli esperti – costituisce sul piano tecnico una scelta condivisibile che consentirà di fare chiarezza sul livello di pressione fiscale effettivamente esercitato sui redditi di lavoro dipendente di fascia medio-bassa e, a livello macro, sul livello di pressione fiscale effettivamente esercitato dall’Erario». «La soluzione la scrissi a suo tempo e se vogliono «la possono andare a cercare nei cassetti di Via Venti Settembre». L’ex viceministro dell’Economia e attuale segretario di Scelta Civica, Enrico Zanetti, non è contrario a cambiare l’impianto degli 80 euro. Ma le soluzioni alle quali pensa il governo non lo convincono. Il rischio, dice, è di fare «un pasticcio». Onorevole Zanetti, qual è il suo suggerimento al governo? «La sola unica mediazione tecnica possibile per trasformare il bonus senza danneggiare nessuno è un aumento di 960 euro della detrazione per redditi di lavoro dipendente a chi ha un reddito complessivo fino a 26.600 euro, ma a patto che la parte di aumento della detrazione che eccede l’Irpef resti agli incapienti come credito d’imposta».
Politica interna
Caos nel Governo: aria di crisi nell’asse Lega-M5S. Il sottosegretario Vincenzo Santangelo, del Movimento 5 Stelle, è già in piedi, sta aggiustando il microfono. Deve dare il parere del governo perle mozioni sulla Tav. E tra poco lo farà, rimettendosi al voto dell’Aula, come da antica tradizione quando si annuncia brutto tempo. Prima di lui, però, ha chiesto la parola il viceministro della Lega Massimo Garavaglia, seduto proprio lì a fianco. Sono passati cinque minuti dalle undici del mattino quando la teoria dei due governi si materializza qui nell’Aula del Senato. Un’ora dopo arrivano anche i numeri. La mozione del MSS, che dice no alla Tav e ridà la parola alle Camere, viene bocciata: votano a favore solo i pentastellati con raggiunta del Pd Tommaso Cerno. «A questo punto mi chiedo se non dobbiamo finirla qui». In un pomeriggio lunghissimo che sembra non avere fine, nell’attesa spasmodica delle mosse e delle parole di Matteo Salvini, Luigi Di Maio si rinchiude tra gli uffici M5S del Senato e quelli di Palazzo Chigi. Senza dire una parola ai cronisti. «Non commento», sibila rapido dopo il voto sulla Tav attraversando a tutta velocità la sala Garibaldi di Palazzo Madama. Il primo che chiama è Beppe Grillo. Ha bisogno di rassicurazioni, perché sa che nel Movimento ormai troppi sono contro di lui e contro la linea di subalternità alla Lega. Di Maio chiede ai suoi – come già successo dopo il tracollo alle elezioni europee – cosa deve fare. II velleitario tentativo di liquidare il voto di ieri mattina come un trascurabile incidente di percorso regge fino al tardo pomeriggio, quando il leader della Lega Matteo Salvini si presenta a Palazzo Chigi per incontrare il premier Giuseppe Conte e chiedere un rimpasto che segni un cambio di passo. «Stiamo lavorando, il presidente è in ufficio a dedicarsi a vari dossier», assicuravano nella sede del governo nelle ore successive alla rappresentazione plastica di un doppio esecutivo andata in scena nell’Aula del Senato. Da cui Conte si tiene volutamente lontano, lascia vuota la sedia di velluto rosso a lui riservata nei banchi del governo. Cosa farebbe il presidente, in caso di crisi? Se Salvini teme che Mattarella si metta a brigare, inventandosi la qualunque pur di sbarrare la strada a nuove elezioni, il “Capitano” può stare tranquillo: sul Colle non risulta alcuna cospirazione ai suoi danni. Apprensione per quanto potrà accadere, quella senz’altro, e pure tanta. Però chi frequentai piani altissimi ha la certezza che il capo dello Stato si spoglierebbe dei propri personali convincimenti, attenendosi ai 70 anni di prassi costituzionale. Qualora Conte si facesse vivo, e a maggior ragione se gettasse la spugna, verrebbe immediatamente ricevuto nel salottino presidenziale. La partenza di Mattarella per le ferie (prevista per stasera, destinazione La Maddalena) sarebbe rimandata. Comincerebbero le consultazioni che, nella visione “notarile” del Garante, rappresentano uno snodo decisivo.
Crisi di Governo: il ruolo del Pd in questa fase. «Il governo si è spaccato come un mela e noi dobbiamo restare uniti»: è l’esortazione di Nicola Zingaretti ai parlamentari del Pd. «Ora – spiega il segretario – dobbiamo alzare il tiro e chiedere che Conte vada al Quirinale e che venga in aula a chiarire, perché non ha più una maggioranza». II leader dem vorrebbe un Partito democratico unito almeno in questo frangente, ma non c’è verso. Vecchie e nuove ruggini inceppano inevitabilmente i meccanismi del Pd. Il tesoriere Luigi Zanda è in disaccordo con Andrea Marcucci, che ha deciso di votare contro la mozione dei grillini, e non lo nasconde. «Allontanarsi dall’aula di Palazzo Madama poteva aiutare a fare emergere con più forza l’incompatibilità ormai conclamata tra Lega e MSs: c’erano ministri della Lega da una parte e i Cinque Stelle dall’altra. Ma sarebbe stato utile uscire dall’Aula anche per noi perché non mi è piaciuto vedere il voto Pd accostato a Lega, Fl e FdI», spiega Zanda. Di sicuro nascerà una forza di centro, su questo non ci sono dubbi», diceva ieri mattina Matteo Renzi in Senato. E la sua previsione (o annuncio che dir si voglia) alla luce di quanto sta succedendo potrebbe essere valida anche con questa accelerazione della crisi. Appena sgancia la “bomba” – ovvero quella che pronunciata dalla sua bocca ha l’aria di essere una notizia attesa da tanti del “suo Pd” (e temuta da altrettanti) – Renzi prova ad attenuarla come se fosse solo un’analista. E non un attore protagonista. Parla quando ancora non si è materializzato l’ultima minaccia di Salvini, che potrebbe portare a mutamenti improvvisi di tutto il quadro politico. «Io ormai sono un osservatore», dice Renzi col sorriso a mezza bocca a chi gli chiede se lui sarà uno dei tessitori di questa forza centrista. «Anzi, magari ne nascerà più d’una. Il problema casomai è se ne riesce a nascere davvero una seria, fatta bene». Non dice di più Renzi, non chiarisce se potrebbe trattarsi di una lista liberal e moderata come quella immaginata da Carlo Calenda, o una lista creata a partire dai Comitati civici da lui lanIl problema casomai è se riesce a nascere una forza di centro che sia davvero seria e anche fatta bene ciati alla Leopolda; o addirittura una forza più larga rivolta non solo al centro cattolico-democratico, ma anche all’elettorato che fu di Forza Italia, con esponenti come Mara Carfagna e altri riformisti di area montiana legati al mondo delle imprese, per provare a frenare Salvini. Scenario di cui si vocifera da giorni nei Palazzi.
Politica estera
Usa: mossa di Trump a El Paso, più controllo sulle armi. Controlli preventivi per chi vuole acquistare un’arma: il concetto anatema fino a ieri per la lobby dei costruttori e per i politici da essa controllati potrebbe diventare presto legge negli Stati Uniti. Lo ha detto Donald Trump ieri mattina prima di lasciare la Casa Bianca per andare a visitare i sopravvissuti delle stragi del fine settimana appena passato. «C’è un enorme appetito politico per una disciplina dell’acquisto – ha detto il presidente – e per la definizione di una serie di “red flags”», i segnali di allerta per l’emergere di squilibri mentali di un individuo, o anche solo l’espressione di intenti violenti contro la comunità, che lo renderanno inadatto al possesso di un’arma. Per la prima volta dopo un primo accenno su Twitter lunedì mattina, Trump è tornato a parlare con disinvoltura e determinazione della sua disponibilità a firmare leggi che abbiano questi contenuti. «Il bando contro le armi d’assalto, no! – ha specificato il presidente – Per quello manca al momento consenso politico». Una folla spaccata e contrapposta ha accolto ieri Donald Trump durante la sua visita nei luoghi delle due sparatorie del fine settimana costate lavita a 31 persone. Il presidente è arrivato con la first lady Melania a Dayton, in Ohio, dove domenica, a poche ore dalla sparatoriadi El Paso, si è consumata la seconda strage in cui sono rimaste uccise nove persone. L’autore, il 24 enne Connor Stephen Betts, è risultato essere un simpatizzante dell’estrema sinistra. Al contrario di Patrick Crusius, 21 anni, che ispirato da motivazioni di odio razziale ha ucciso 22 persone in un tranquillo sabato di shopping nella cittadina di frontiera del Texas. «Sono preoccupato per l’ascesa di qualsiasi gruppo che inciti all’odio», afferma Trump. Nella città dell’Ohio l’inquilino della Casa Bianca è stato accolto dalle proteste che hanno preso di mira la sua retorica incendiaria all’origine – secondo i suoi critici – di tutte le violenze. «Dump Trump», scarica Trump, è la scritta che campeggiava su alcuni cartelli mentre altri recitavano «Do something», fai qualcosa, o «Save our guy», salva i nostri ragazzi, o ancora «Flip the Senate», rivolta il Senato, a maggioranza repubblicana.
Il Pakistan allontana l’ambasciatore indiano: pericoli per negoziati su Afghanistan? La revoca delle statuto speciale del Kashmir decisa dall’India rischia di minare gli sforzi degli Stati Unti di trovare un accordo con i talebani per la pacificazione dell’Afghanistan. E’ questo il timore che serpeggia in seno all’amministrazione Trump proprio quando il negoziato di Doha, in Qatar, tra l’inviato Usa Zalmay Khalilzad e gli emissari talebani, ha raggiunto un punto di svolta: i talebani si sarebbero in fatti impegnati a tagliare i legami con i gruppi jiadisti in cambio del ritiro delle truppe Usa. Così i funzionari di Washington si sono recati d’urgenza a Islamabad e Nuova Delhi per accertarsi che il quadro regionale di sostegno all’accordo non venisse meno. Il Pakistan svolge del resto un ruolo strategico imprescindibile al buon esito dell’intesa, e l’India uno di solido sostegno esterno. In questo quadro si inserisce la visita a Washington di luglio del primo ministro di Islamabad, Imran Khan, e del generale Qamara Bajwa, il potente capo dell’esercito nazionale. «Mi auguro che questa nuova aggressione non scateni un’altra guerra. Ma è una possibilità. E le conseguenze saranno comunque disastrose». Mirza Waheed è il più famoso scrittore del Kashmir, dove è cresciuto prima di trasferirsi a Londra con moglie e figli. L’iniziativa del governo indiano che di fatto priva la regione dei suoi poteri autonomi suscita grande allarme: «Non posso nemmeno comunicare con i miei genitori, il Kashmir è isolato, tagliato fuori dal mondo», dice il romanziere. «Non si può chiamare neanche una linea fissa. Ho tentato di telefonare ai miei genitori, niente da fare. Nessuno sa che cosa sta succedendo in Kashmir, la censura è completa. E che questo venga dal governo della nazione soprannominata “la più popolosa democrazia della terra” è ancora più vergognoso».